Dopo le manifestazioni di quasi un anno fa, l’esercito riprende il potere per ristabilire il vecchio status quo. E allontanare ancora le libere elezioni
di Lorenzo Bagnoli
Il Burkina Faso – tradotto: il Paese degli uomini integri – ha perso la sua innocenza quando è stato ammazzato il leader della sua liberazione, Thomas Sankara, il Che Guevara d’Africa. Era il 15 ottobre 1987. Quell’evento di 28 anni fa riecheggia ancora oggi nella notizia del colpo di Stato avvenuto a Ouagadougou. Perché il presunto “mandante” coincide con quello, altrettanto presunto, dell’omicidio Sankara. L’uomo in questione risponde al nome di Blaise Compaoré, dall’87 al 2014 presidente, discusso in patria ma non fuori. Al forum della cooperazione del 2012 a Milano fu ricevuto con tutti gli onori del caso.
A Ouagadougou in mattinata tutte le tv trasmettono le immagini di un uomo in divisa, il colonnello Mouamadou Bamba. Dichiara che il Paese è in grave pericolo e che suo dovere è restaurare un “nuovo consiglio democratico” che metta fine al precedente “regime deviato”.
Il presidente ad interim Michel Kafando e il suo primo ministro Yacounda Isaac Zida sono in arresto: a mettere loro le manette ai polsi sono i militari della Guardia presidenziale, pagati in teoria proprio per difenderli. Le elezioni in agenda distano giusto qualche settimana: l’11 ottobre.
Il mandato di Kafando e Zida era gestire la transizione del potere e a quel punto sarebbe tornato nelle mani degli elettori. Ma pare che ci sia qualche ostacolo alla democrazia in Burkina Faso: l’esercito e le guardia presidenziale.
Sono loro (o almeno l’elite) i più ostili a libere elezioni. Sono loro a non aver mai abbandonato la casacca del vecchio regime di Blaise Compaoré, il vecchio presidente.
Da mesi lo stesso Reggimento speciale chiamava a gran voce le dimissioni del presidente. D’altronde Kafando, 73 anni, di cui 15 passati a rappresentare all’Onu il Burkina, cosa mai aveva da spartire con loro? Invece Compaoré fu capitano dell’esercito di quando il Burkina si chiamava ancora Alto Volta.
L’ipotesi più accreditata, ad ora, appare quindi quella di un contro-golpe per ristabilire lo status quo antecedente all’ottobre 2014, la stagione che sarà consegnata alla storia come seconda rivoluzione burkinabè. La retorica dei manifestanti la racconta parlando di folle oceaniche che in quei giorni hanno spinto il presidente Compaorè a cedere il passo, dopo che si era candidato per il quinto mandato consecutivo. Più prosaicamente, a convincere il dinosauro burkinabé a fuggire in esilio in Marocco sono stati probabilmente degli equilibri cambiati, ancora una volta, in seno all’esercito, gran cerimoniere dei colpi di Stato a tutte le latitudini nel continente africano.
Quello che è successo dopo l’annuncio in tv di Mouamadou Bamba era facile da prevedere. Ha cominciato a scorrere il sangue dei manifestanti – almeno 60 i morti – che reclamavano il diritto alle elezioni e che protestavano contro il colpo di mano delle forze armate. L’unico dato certo al momento, invece, è proprio che quelle elezioni non si faranno. Checché ne dica il nuovo presidente del Consiglio nazionale della democrazioa (Cnd) Gilbert Diendéré, ex braccio destro di Compaoré e suo Ministro della Giustizia. Nonché uno degli imputati per il processo sulla morte di Sankara. Diendéré ha affermato di voler portare il Paese alle urne, in accordo con le forze politiche burkinabé.
La situazione, come ricorda Jeune Afrique, è comunque molto confusa. Dopo la cacciata di Compaoré, infatti, è stato costituito un organo legislativo con il compito di guidare il Paese, accanto a presidente e premier, fino alle urne.
A capo del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) c’è Chérif Sy, giornalista, presidente del centro di giornalismo Norbert Zongo di Ouagadougou. E si è autoproclamato presidente, in attesa della liberazione del legittimo titolare del potere Kafando. Ai militari però pare non interessino le dichiarazioni di Sy.
Il risultato è che Ouagadougou si aggiunge alla lista delle zone calde dell’Africa. Il Paese è sede di diversi contingenti militari occidentali, atterrati nella regione per combattere i gruppi terroristici che si muovono nel Sahel. Accanto ci sono aree ad alta instabilità, come la Repubblica centrafricana e il Nord della Nigeria. Più ad est, in Burundi, si corre il rischio che scoppi una nuova guerra civile. Eppure chi ha in sorte di raggiungere l’Europa per fuggire dal costante pericolo di finire in un conflitto, è ancora considerato un “migrante economico”, un fuggiasco di serie B a cui difficilmente si concede l’asilo politico.