La complessità sociale del Burundi

Intervista a una giovane antropologa a lavoro nel paese Africano

di Alessandro Rocca

Marta Mosca è una giovane antropologa e ricercatrice. Da qualche mese si trova in Burundi, paese che sta vivendo momenti di difficoltà e tensioni sociali e politiche, snobbato dai media italiani. L’abbiamo raggiunta e da testimone sul campo abbiamo provato a farci raccontare la situazione del piccolo paese nel cuore dell’Africa.

Marta da quanto tempo sei in Burundi e cosa ci fai?

Ho ottenuto la laurea in Antropologia Culturale all’Università di Torino, sotto la supervisione del Professor Francesco Remotti, con una tesi sul processo di costruzione della logica identitaria in Burundi, causa della spaccatura tra Hutu e Tutsi, e sulle conseguenze del totalitarismo etnico imposto in epoca coloniale, perpetrato nel post-indipendenza e continuamente manipolato a fini politici.
Attualmente sono Dottoranda in Antropologia presso la medesima università e ho iniziato la mia ricerca a Bujumbura a inizio aprile 2015 occupandomi principalmente dell’impatto che la violenza politica ha sulla società burundese. Elemento costante nella storia del Paese, la violenza politica rappresenta in questo particolare e delicato momento storico un elemento strutturale le cui conseguenze sul piano sociale, morale, culturale ed economico sono estremamente visibili. Analizzare la forma che la violenza ha assunto in questo periodo, permette dunque di esaminarne le ripercussioni a vari livelli.

In Italia le notizie su quello che sta succedendo in Burundi sono completamente assenti dai media tradizionali, come tg e quotidiani nazionali. E sono presenti sul web con titoli e descrizioni a volte fuorvianti come “Mattanza a Bujumbura”. Puoi darci un quadro più preciso su cosa effettivamente sta succedendo nel paese dal tuo punto di vista privilegiato?

Purtroppo l’assenza di notizie non stupisce più. Poco importa che si tratti di un piccolo paese come il Burundi o di un grande paese come la Repubblica Democratica del Congo. Sono paesi lontani la cui realtà viene spesso spiegata attraverso un’infinita serie di stereotipi semplicistici la cui decostruzione risulta essere estremamente difficile, soprattutto quando i media anziché contraddirli li amplificano. Ritengo sia necessario sottolineare la gravità degli eventi che stanno caratterizzando la storia recente del Burundi, ma ritengo altrettanto doveroso coglierne la complessità e le specificità. Questo significa esaminare le dinamiche scatenanti, contestualizzare i fatti ed evitare le generalizzazioni.
Il controverso terzo mandato di Pierre Nkurunziza, che annuncia ufficialmente la sua candidatura il 25 aprile 2015, scatena un movimento di contestazione senza precedenti per composizione, forma e durata. Emerge immediatamente una figura centrale che si collocherà al cuore di questa crisi: la gioventù burundese che grida ad alta voce il suo dissenso scendendo in strada e dando il via ad un’inedita ondata di manifestazioni. Queste ultime, hanno visto la partecipazione di giovani hutu e tutsi provenienti da diversi strati sociali la cui tenacia e perseveranza ha conferito loro un ruolo altamente simbolico all’interno di questa crisi. Altrettanto significativa, e se vogliamo ancora più sorprendente, è stata la partecipazione delle donne che attraverso l’organizzazione di marce pacifiche sono state le uniche a raggiungere Place de l’Indépendance, il centro città. Durante i mesi di maggio e giugno i quartieri bastioni del movimento di contestazione sono stati oggetto di una dura repressione da parte della polizia, diventata a sua volta simbolo dell’oppressione. A partire dal mese di luglio le manifestazioni iniziano ad avvertire una diminuzione d’intensità, dovuta non soltanto all’oppressione subita, ma anche al senso di frustrazione. Le elezioni comunali e legislative del 29 giugno seguite dalle presidenziali il 21 luglio dichiarano la vittoria di Pierre Nkurunziza e del suo partito, il CNDD-FDD (Conseil National pour la Défense de la Démocratie – Forces de Défense de la Démocratie). La conferma di questo terzo mandato presidenziale, duramente contestato perché anticostituzionale e contrario agli Accordi di Pace di Arusha, provoca un enorme senso di delusione e insuccesso in seno alla gioventù burundese e all’interno della Società Civile e dell’opposizione.
La violenza di Stato finalizzata al mantenimento del potere si serve di diversi strumenti: intimidazioni, arresti arbitrari, tortura, eliminazione fisica. Tuttavia, questa violenza legata all’esercizio del potere come condizione di predominio ne genera un’altra: quella contestataria. Coloro che a mani nude subiscono ingiustamente la violenza, sotto varie forme, si sentono successivamente legittimati ad utilizzarla come strumento di difesa. La mancanza di sicurezza, normalmente garantita dallo stato e dalle forze dell’ordine, impone la ricerca di metodi di difesa alternativi. Ragione per cui, soprattutto nei quartieri contestatari, molti civili sono attualmente armati.
Colpi di Stato, massacri, repressioni, ribellioni armate, rivolte popolari, programmi di eliminazione volti a sterminare una parte ben precisa della popolazione: la violenza politica è multiforme e rappresenta una costante nella storia del Burundi. Analizzare la forma che la violenza ha assunto in questo momento significa anche esaminarne le conseguenze sul piano sociale e culturale. La violenza urbana, per esempio, in questo caso è diretta conseguenza dei metodi repressivi/oppressivi che la popolazione di Bujumbura è obbligata a subire.
Parlo della popolazione di Bujumbura perché il movimento di contestazione si è consumato in capitale coinvolgendo in particolar modo alcuni quartieri periferici. L’immagine spesso resa dai media è invece quella di un intero paese in fiamme in cui tutti i burundesi si sono dichiarati contro il terzo mandato, senza tenere conto della porzione di popolazione che l’ha sostenuto. Articoli di giornale dai titoli volutamente accattivanti e inquietanti allo stesso tempo, sovente generalizzano e semplificano i fatti attraverso l’uso di un linguaggio superficiale. L’uso frequente del termine “guerra civile”, utilizzato come gran calderone in cui convogliare tutti gli avvenimenti senza distinzione di sorta, a mio avviso comporta una visione riduttiva della realtà. Ad esempio, opportuna distinzione è quella tra contesto urbano e contesto rurale. Città e campagna hanno reagito in maniera distinta di fronte alla crisi e di conseguenza il livello di coinvolgimento è stato molto più ampio a Bujumbura (epicentro della vita politica, economica e intellettuale) rispetto al resto del paese. Altre questioni: perché una parte della popolazione ha sostenuto Nkurunziza? Perché questa risiede soprattutto nelle campagne? Cosa distingue la popolazione urbana da quella rurale?
Indiscutibilmente siamo tutti d’accordo su una serie di fattori: l’illegittimità del terzo mandato, l’utilizzo della violenza e l’imposizione di una logica del terrore come strumenti di mantenimento del potere, l’assenza di pluralismo politico e la mancanza di una gestione democratica del potere.
Questi sono gli elementi più lampanti e controversi, dunque automaticamente i più discussi. Ma non sono forse anche i più superficiali? Per superficiali non intendo banali o meno importanti, ma che dimorano in superficie. Penetrare le grandi questioni, quelle più manifeste, e analizzare gli aspetti che si trovano al di sotto evita di rimanere imprigionati in una visione ristretta e limitata della realtà. Questa crisi burundese è contraddistinta da elementi, alcuni più nuovi altri meno, che credo sia necessario prendere in considerazione.
Primo fra tutti il ruolo della gioventù burundese. Una gioventù che ha più volti: quello delle vittime della repressione, quello degli imbonerakure (i militanti del CNDD-FDD), quello dei disoccupati dei quartieri popolari, quello degli attivisti della società civile mobilitati contro il terzo mandato, quello degli intellettuali impegnati nelle manifestazioni o rifugiati altrove. Il 66% della popolazione burundese ha meno di 25 anni. Una presenza giovanile tanto vasta quanto ignorata e allo stesso tempo manipolata da parte degli attori politici. I giovani burundesi impegnati nelle associazioni della società civile, strettamente connessi tra di loro e con gli occhi puntati su altri movimenti africani (“Y’en a marre” in Senegal, “Balai citoyen” in Burkina Faso, “Filimbi” in RDC) hanno espresso non soltanto il loro dissenso verso il terzo mandato, ma anche la volontà di costruire un nuovo spazio di dialogo e il diritto di partecipare alla costruzione della democrazia.
Altro elemento significativo è l’appassionata partecipazione delle donne alle manifestazioni, in una società come quella burundese in cui all’espressione del mondo femminile vengono accordati confini ancora piuttosto limitati.
Le dinamiche politiche interne e quelle della geopolitica regionale che hanno portato alla candidatura di Nkurunziza e alla riconferma del CNDD-FDD alla testa del paese, sono altrettanto significative.
Infine, il problema numero uno per la maggior parte dei burundesi è la sopravvivenza. Ecco perché tra le file degli imbonerkure troviamo tanti giovani disoccupati per i quali aderire alla “jeunesse du parti au pouvoir” rappresenta l’unica scelta possibile perché la sola a garantire una somma di denaro alla fine del mese, seppur minima. Per la stessa ragione troviamo alcuni giovani senza prospettive future tra le file dei manifestanti, non tanto perché pienamente coscienti delle implicazioni politiche, sociali e morali del terzo mandato, ma perché spinti a lottare al posto di altri con la promessa di ricevere qualcosa in cambio.
Raramente mi sono imbattuta sull’analisi di questi elementi.

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C’è effettivamente un pericolo di deriva come in Rwanda nel 1994? Alcuni analisti occidentali sostengono questa tesi.

In primo luogo credo sia indispensabile distinguere il Rwanda dal Burundi. Questi due piccoli paesi sono profondamente legati da una storia precoloniale e coloniale molto simile, ma più slegati rispetto a quella del post-indipendenza e post-genocidio. Dopo l’acquisizione dell’indipendenza dal Belgio il 1° luglio 1962 il Burundi ha visto succedersi una serie di capi tutsi (Micombero, Bagaza e Buyoya) tutti provenienti dalla stessa regione (Bururi) e tutti generali impossessatisi del potere attraverso colpi di stato militari. Il Rwanda invece ha vissuto decenni di potere hutu (Kayibanda, Habyarimana, Sindikubwabo, Bizimungu). Indubbiamente c’è stata una forte influenza degli eventi rwandesi su quelli burundesi e simili modalità di esecuzione dei piani di sterminio volti a eliminare una parte ben precisa della popolazione. Il paradigma del genocidio rappresenta l’elemento comune che in entrambi i casi ha condotto alla “soluzione finale” eseguita nell’ottobre del ’93 in Burundi e nell’aprile del ’94 in Rwanda. Il totalitarismo etnico ha dunque condotto i due paesi ad un destino di massacri fratricidi ripetuti ma con tempi e impatti differenti.
Altra distinzione necessaria è quella tra Burundi 1993 e Burundi 2015.
Personalmente (senza voler mettermi al pari di analisti e storici che si occupano di Burundi da molto più tempo di me) ritengo che la situazione attuale presenti alcuni elementi nuovi e specifici. L’etnismo assume in questa crisi un peso e un significato differente. Si è ormai ben delineato un altro problema che in termini più generali investe tutti gli strati della popolazione e tutte le categorie sociali: quella della bonne gouvernance/mauvaise gouvernance. Sintomatico il fatto che hutu e tutsi abbiano partecipato uniti ad un movimento di contestazione spinti da medesimi obiettivi. Il dissenso espresso durante le manifestazioni non si è rivolto soltanto al terzo mandato in senso stretto, ma all’intero sistema. Un sistema diretto da una classe di privilegiati che gestisce il potere e le risorse economiche escludendo ogni altro possibile candidato. Questa logica, in antitesi al concetto di pluralismo e alternanza, crea frustrazione in coloro che sono esclusi dall’accesso al sistema.
L’eventualità di una qualche deriva rientra nei possibili scenari ipotizzati, ma non credo che in termini di forma e portata si possa parlare di una crisi simile a quella che ha colpito il Burundi nel 1993.

Qual è il ruolo dei paesi confinanti e in particolare del Rwanda? Visto anche che hai soggiornato da poco a Kigali e Rwanda e Burundi spesso vengono considerati paesi molto simili, ma forse anche molto diversi.

I paesi confinanti, Rwanda escluso, sono accusati di non aver preso una posizione abbastanza forte e di sostenere in maniera diretta o indiretta il governo Nkurunziza. Kagame è stato l’unico ad aver criticato severamente la condotta del presidente burundese e la sua candidatura ad un terzo mandato.
Del resto la durata dei mandati presidenziali sembra essere argomento piuttosto controverso in tutta la regione: in Uganda Museveni è al potere dal 1986, in Tanzania la scelta di un candidato per sostituire Jakaya Kikwete che a ottobre concluderà il suo secondo mandato ha creato non poche difficoltà in seno al partito al potere, in RDC Kabila al suo secondo mandato si sta preparando per le elezioni 2016 e in Rwanda le presidenziali 2017 e la modifica della Costituzione sono già oggetto di discussione.
A dimostrare l’assenza di una linea comune sono stati i vari summit dell’East African Community. Concepiti come occasione di dialogo e di intesa tra i capi di stato della regione, non hanno sortito alcun risultato concreto se non quello di richiedere il rinvio delle elezioni. Un breve posticipo (dal mese di giugno al mese luglio) che ovviamente non ha risolto le grandi questioni della crisi burundese: la ripresa di un dialogo tra governo e opposizione, la programmazione di un calendario elettorale condiviso e il disarmo degli imbonerakure. All’insuccesso delle riunioni al vertice dell’EAC segue quello dei vari mediatori che si sono succeduti (da Saïd Djinit, Abdoulaye Bathily e Yoweri Museveni) e che non sono riusciti nel loro compito di riavviare e facilitare il dialogo tra governo e opposizione.
Per quanto riguarda i rapporti fra Rwanda e Burundi, le tensioni datano già qualche tempo e sono dovute soprattutto alla questione FDLR. Le Forces Démocratique de Liberation du Rwanda sono un gruppo armato formato nel 2000 nella Repubblica Democratica del Congo per difendere gli interessi degli hutu rwandesi rifugiati in RDC e opposti alla presidenza di Paul Kagame. Il gruppo ribelle è oggi attivo soprattutto all’est della RDC nel Nord-Kivu, ma a più riprese il Rwanda ha accusato il Burundi di sostenere e nascondere membri delle FDLR sul suo territorio. Nonostante il governo burundese abbia sempre smentito tali sospetti, la possibile presenza di membri di questo gruppo ribelle in Burundi rimane argomento sensibile e controverso.
Attualmente il Rwanda accoglie migliaia di rifugiati burundesi che sono fuggiti per paura di una nuova possibile forma di violenza nel paese. Fughe verso Rwanda, Tanzania e RDC, iniziate qualche mese prima la dichiarazione della candidatura di Nkurunziza, anche sull’onda dei rumors. Questi ultimi, uniti alla memoria storica ancora piena di cicatrici, hanno creato una sorta di psicosi generale. Tale situazione ha causato malcontento da parte del Rwanda e sospetto da parte del Burundi. Il governo burundese teme l’eventualità di un attacco organizzato da gruppi ribelli rifugiatisi nel paese vicino. Tutto ciò non ha fatto altro che irrigidire la posizione di Kagame.
La reazione dei rwandesi di fronte alla crisi burundese assume invece diverse sfumature. Stima da un lato nei confronti dei giovani burundesi che sono scesi in strada in nome della libertà di espressione. Sufficienza mista a compassione dall’altro verso un paese che, a differenza del Rwanda, non ha avuto un leader capace di ricostruire ciò che è andato perduto durante gli anni bui della guerra civile.
In Rwanda l’ordine e il rigore sono palpabili. Kigali, anche nei luoghi più affollati è comunque ordinata. Una disciplina a tratti inquietante.
Forse è questa la ragione per cui i rwandesi in parte snobbano (passatemi il termine) i burundesi definendoli talvolta come fratelli indisciplinati, e in parte li apprezzano. Un movimento di contestazione come quello che ha preso forma a Bujumbura nei mesi scorsi non è lontanamente immaginabile in Rwanda.

Come vedi, da espatriata la situazione nei prossimi mesi?

La degradazione delle condizioni di sicurezza, soprattutto in alcuni quartieri di Bujumbura, è un dato di fatto e il lassismo dimostrato fino ad ora da parte della Comunità Internazionale, della Comunità dell’Africa Orientale e dell’Unione Africana ha contribuito ad un generale peggioramento della situazione. A partire dal mese di agosto dopo la fine del processo elettorale, la violenza ha assunto un volto ben definito: quello di esecuzioni mirate, dirette a eliminare precise figure politiche.
In questo senso sembra di vivere in una città a doppia personalità. Una quotidianità pressoché normale, nei quartieri centrali della capitale, seguita da notizie di crimini efferati eseguiti con estrema minuzia e rapidità. Inoltre, il sistema giudiziario carente e lacunoso nella maggior parte dei casi lascia impuniti i colpevoli.
La crisi attuale non è soltanto politica e sociale, ma anche morale. Ad esserne maggiormente colpite sono le nuove generazioni disilluse e frustrate di fronte ad un sistema corrotto e ad una profonda miseria urbana e rurale che stride con l’ostentato arricchimento della minoranza. In questo senso, non si tratta più di lotta interetnica ma di lotta tra classi sociali: la maggioranza esclusa contro la minoranza privilegiata.
Sono stati supposti vari scenari per il Burundi del post-elezioni. Personalmente ritengo lontana l’ipotesi di un nuovo conflitto su base etnica o quella dello scoppio di una violenza generalizzata in tutto il paese. Credo sia più probabile il mantenimento di questa logica del terrore mirata verso alcune categorie sociali che permette all’attuale governo di preservare il potere in un contesto di calma apparente.

Che difficoltà stai incontrando nel portare avanti la tua ricerca, se difficoltà ci sono.

Riguardo la ricerca in senso stretto, le difficoltà riscontrate sono state inferiori rispetto a quelle immaginate. Malgrado la complessità della situazione l’accesso alle informazioni e alle persone, anche quelle più impegnate nel movimento di contestazione nei mesi di maggio e giugno, si è rivelato meno arduo del previsto. La forte esigenza di espressione riguardo le ragioni che hanno scatenato questa nuova crisi burundese e, al tempo stesso, il desiderio di sensibilizzare anche l’opinione pubblica internazionale, hanno reso meno spinoso il mio compito e più accessibili e aperti i miei interlocutori.
Per certi versi ho riscontrato meno difficoltà in questo momento carico di tensioni, rispetto a quando tempo fa, in tempi più distesi, indagavo su genocidio e questione etnica per la mia tesi di laurea specialistica.
Credo invece che la difficoltà più grande sia stata la “gestione emotiva” del campo. Una prima constatazione: la mia personale percezione della violenza non è paragonabile a quella di un trentenne burundese nato negli anni ’80 alla soglia degli imminenti massacri consumatisi nel ’93 e della successiva guerra civile durata più di dieci anni. Non è paragonabile nemmeno a quella dei più anziani che hanno vissuto in prima persona le crisi che dopo l’indipendenza si sono succedute fino ad ora. Nonostante la permanenza sul terreno e tutto ciò che questo comporta (l’immersione nel contesto, il contatto quotidiano con la comunità in cui si lavora, la realizzazione di interviste, l’ascolto di testimonianze, lo studio della storia, la ricerca d’archivio…) il livello della mia comprensione, accettazione e tolleranza della violenza continuerà a differire rispetto a quello dei miei interlocutori. Allo stesso modo, anche l’abitudine a meccanismi di coercizione, che in determinati momenti storici diventano elemento strutturale della società, implica una diversa familiarità e capacità di controllo della violenza.
Tuttavia occorre fare una distinzione rispetto al grado di coinvolgimento. Evidentemente sono toccata dagli eventi ma in qualità di ricercatrice italiana che vive in uno dei quartieri centrali della capitale compreso all’interno del perimetro di sicurezza dell’ONU e non in qualità di burundese che vive a Musaga (uno dei quartieri in cui la contestazione è stata particolarmente accesa). In un certo senso la difficile gestione emotiva della violenza viene controbilancia dall’inferiore livello di implicazione in essa e in ultima analisi, il mantenimento di questo equilibrio permette una sana permanenza sul campo.

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