E’ sempre un fulmine a ciel sereno. Che tu ci sia arrivato attraverso una lunga trafila di analisi e altre indagini mediche per scoprire le cause di uno o più disagi fisici e/o psicofisici, quindi avendone un sospetto, oppure come risultato di un’analisi e/o consulto medico di routine poco importa.
Di Bruno Giorgini
Quando ti dicono lei ha un tumore, magari specificando nome e cognome dello stesso – i tumori sono una grande famiglia – è per te sempre un fulmine a ciel sereno. Più o meno fulminante a seconda della sofferenza pregressa, dell’età, del carattere, del modo in cui ti viene annunciato, del sesso, della collocazione sociale e di mille altre più o meno piccole cose, compreso il tempo che fa.
Scrive Siddharta Mukherjee, medico e ricercatore oncologo statunitense, su “The Emperor of All Maladies. A Biography of Cancer” 2010 (nella traduzione italiana “L’Imperatore del Male” con una impropria accezione morale del tutto inesistente nel titolo originale), premiato col Pulitzer: “Si prevede che, nel 2010, circa seicentomila americani e più di sette milioni di persone in tutto il mondo potrebbero morire di cancro. Negli Stati Uniti una donna su tre e un uomo su due si ammaleranno di cancro nell’arco della propria vita. Un quarto di tutti i decessi americani e intorno al quindici per cento di decessi nel mondo verranno attribuiti al cancro. In alcuni paesi il cancro sorpasserà le malattie cardiache e diverrà la più comune tra le cause di morte.”
L’annuncio ti scuote tutti i neuroni e le altre cellule nonchè i sentimenti, insorge la paura della morte mentre comincia il percorso diagnostico per definire il tipo, la malignità e le dimensioni del cancro che t’affligge, con la ricerca di eventuali metastasi. Quindi la strategia terapeutica di contrasto. Cose di cui non discuteremo in questo scritto. Cose che comunque ti sconvolgono la vita, tempi, ritmi, sogni e speranze, il futuro che s’annichila, anche qui in modi diversi a seconda delle particolari condizioni.
Per una persona giovane è tutta un’altra storia che per un anziano.
Ho visto in ospedale un ragazzo quattordicenne diventare uomo in una notte, attendendo un risultato che, se positivo, avrebbe obbligato l’indomani i medici a un intervento devastante per la sua identità maschile. Per fortuna poi non accadde e il suo tumore fu domato per altre meno distruttive vie.
Il fidanzato di una giovane ragazza prima viene ogni giorno, dopo una volta la settimana poi scompare: è difficile specie da giovani l’amore con qualcuno che ha un piede nella fossa. E’ difficile la compassione, il patire insieme, il condividere la passione anche nel cancro, perchè eros incalzato da thanatos indebolisce, barcolla e può cadere. Nel percorso dal bacio sensuale su una spiaggia a quello dolorante su un letto d’ospedale si apre una frattura, che può allargarsi fino a diventare insanabile, spezzando il flusso amoroso. E per lei giovane ragazza, se e quando uscirà risanata dal tunnel canceroso, sarà difficoltoso per gli anni a venire l’amore, la condivisione della vita parendole improbabile se non impossibile.
Il cancro ti mangia il tempo di vita, ancor prima di darti la morte biologica.
Con le terapie pesanti necessarie, la guerra chimica – chemioterapia, la guerra atomica – radioterapia, quella all’arma bianca – chirurgia, e connesse terapie farmacologiche, l’iniezione di ormoni che possono sbriciolare le ossa per esempio. Con le interminabili attese dei risultati, le analisi prima dopo durante, i ricoveri in ospedale nei reparti C, le divisioni cancro, dal titolo di un grande romanzo di Solgenitsin, non proprio luoghi dove regna l’allegria.
Con la paura, l’abbiamo già detto, della morte che alberga in te e le angosce che genera.
Però finchè sei vivo, non sei morto. In qualche modo devi separare la morte che alberga in te, e la vita che continua in te. Una sorta di schizofrenia controllata che ti permetta sia di essere cosciente del cancro, che di tenerlo alla larga e/o sotto controllo perchè non dilaghi, invadendo la tua mente fino a occuparla totalmente, più precisamente totalitariamente.
In qualche modo il tuo comportamento deve modellarsi come fosse guidato da un doppio cervello, uno per il cancro e uno per vivere, per goderti la vita. D’altra parte se abbiamo due emisferi cerebrali, io nel pensier mi fingo di avere due cervelli. Nel mio girovagare in questo mondo ho visto in essere due estremi, con tutte le sfumature intermedie.
Una mia amica ha scelto drasticamente di affidare in toto il suo cancro a un medico e a una istituzione di cui lei ha piena fiducia per la caratura scientifica, per la comprensione umana, per l’efficacia terapeutica. Ella in proprio si occupa solo di vivere la sua vita, certo con tutti i limiti fisici che la malattia comporta, assunti però come semplici condizioni al contorno, se vogliamo come vincoli esterni non inerenti la sua anima, i suoi desideri, i suoi sogni. Così ha fatto viaggi geografici, culturali, sentimentali che prima soltanto sognava, con felicità, nonostante a volte il flusso di vita si incrini perchè il tumore dolorosamente si fa sentire, e una azione terapeutica s’impone.
Un mio amico invece del tumore ha voluto sapere il più possibile, leggendo riviste scientifiche, libri, articoli, chiedendo ai, e discutendo con, i medici. Persino si è arrangiato per andare nel laboratorio di biologia dell’ospedale dove era ricoverato, vedendo le sue proprie cellule tumorali al microscopio. Era molto contento al ritorno nel reparto C, raccontando un po’ a tutti –un po’ troppo – questo viaggio scientifico, questa percezione visiva delle cellule tumorali, come si muovevano, che forma mostravano ecc..quasi avesse scoperto una meraviglia, e non visto in azione delle pericolose assassine.
Finchè sei vivo, devi vivere. Almeno provarci: è questa la prima terapia anticancro che puoi mettere in atto, sapendo che la tua vita non è il tuo cancro, che tu non sei la tua malattia. Il che implica in primis tenere a bada la paura, attenuarla, ridurla, smussarla perchè non si può “morire” di paura quando si ha il cancro, visto che a ammazzarti già ci pensa lui. Tu puoi pensare solo a salvarti. Salvarsi significa anche cercare di vivere una vita con qualche qualità, qualche senso, qualche desiderio.
Ora per ora ogni giorno. Giorno per giorno ogni settimana. Settimana per settimana…è un po’ lungo….accontentiamoci dell’intervallo temporale di una settimana. Può arrivare, arriverà, il momento in cui anche vivere ora per ora sarà scabro assai.
Non si tratta di esercitare il coraggio, la virtù dei forti si diceva un tempo. Si tratta di inventarsi uno spazio per la vita, di creare nuove forme di vita
Il coraggio si da’ quando di fronte a varie strade, di cui una più pericolosa delle altre, tu, cosciente del rischio, per qualche ragione ti incammini lungo quest’ultima.
Ma col cancro non puoi scegliere, non hai facoltà di decisione, salvo l’ipotesi di non curarti, sempre possibile ma che somiglia un po’ troppo al suicidio. Col cancro si tratta di inventarsi uno spaziotempo per la vita, dove sia possibile creare percezioni e forme di vita. Sapendo che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e che la parola vita, per quanto ripetuta e invocata, può svuotarsi goccia e goccia.
Già, il mare. Il primo bagno che egli fa nell’Adriatico, precisamente nella laguna di Grado, quando ancora a stento cammina e l’acqua lo ferisce dura e tagliente come selce, lo riempie di gioia. Con le lacrime agli occhi, tenendosi per mano con E., risale la spiaggia. Non sa ancora se la terapia micidiale da poco terminata, oltre l’avrebbe ammazzato, ha estirpato il cancro, epperò ha vissuto uno dei momenti più belli della sua vita, tre quattro minuti non di più prima di accasciarsi.
“E’ stato lui, il gambero d’acqua dolce che i Romani chiamavano cancer: cancro come la malattia, a tenere in vita una parte degli uomini di Roma schierati contro i Cimbri nella pianura del Po. Lo stesso console Caio Mario, che per una sorta di superstizione legata al nome dell’animale all’inizio non voleva mangiarlo, aveva dovuto cibarsene. (..) Siamo nell’anno seicentocinquantaduesimo dalla fondazione di Roma: corrispondente, nel nostro calcolo del tempo, al centouno prima di Cristo” (Sebastiano Vassalli). Le legioni devono affrontare i Cimbri, popolo germanico guerriero calato dalle Alpi, ma la lunga guerra impedisce di approvvigionarsi di grano e così la placenta, la focaccia di farina antenata della piadina romagnola e della pizza, principale nutrimento del soldato romano, è esaurita. Il cancer permette di sopravvivere, fino alla grande battaglia finale che Roma vincerà.
Non bisogna avere paura delle parole. Hai il cancro. Dillo, comunicalo, parlane. Non è una vergogna. Non è una colpa. Le persone che ami e ti amano, i tuoi congiunti, gli amici, i vicini di casa, i compagni di lavoro, i conoscenti sono parte della tua vita. Non li offenderai, non li spaventerai, semplicemente tenterai di descrivere loro le cose come stanno.
Cancro, la dizione con cui si designa un complesso di malattie terribili, è parola potente, va maneggiata con cura e gentilezza, però non va taciuta.
La verità del cancro non è racchiusa solo nelle analisi biomediche, nelle terapie, nel computo dei sommersi e dei salvati. Di questa verità partecipano, debbono partecipare a costruirla in prima persona i malati, coloro che ne soffrono e la affrontano.
Trovare le parole per dirlo significa anche dare un senso alla malattia, sentirsi, essere vivente; a volte scoprire intimità impreviste, empatie che non t’aspetti, bontà d’animo di cui non t’eri accorto, compassioni – passioni comuni – con qualcuno che non sapevi. Articolare il tuo cancro in un linguaggio significa pur cercare di fartene una ragione comunicandola agli altri. Quell’esercizio che pare spesso burocratico quando non superfluo, l’anamnesi, può invece trasformarsi in una buona approssimazione del “conosci te stesso” di socratica memoria, aprendo spazi al dispiegarsi della vita: inventare un linguaggio significa inventare una forma di vita.
Il mio giovanissimo amico scampato al taglio dei testicoli, rimane però ricoverato per un linfoma. E’ accompagnato dalla madre e dal padre. Vengono dalla bassitalia, come si usava dire un tempo. Hanno preso un congedo dal lavoro per stare accanto al loro figliolo. La mamma ogni giorno prepara per lui in sala d’aspetto un piccola tavola coi fiori e qualche piatto profumato e ricco di colori. Poco importa se la chemioterapia che il ragazzo subisce oltre a fargli cadere i capelli, gli blocca anche lo stomaco. E’ una tavola vitale, e tutti i pazienti timidamente s’affacciano lieti per il giovanotto, ma pure per se stessi. E’ bello quel tavolo imbandito ogni giorno. Persino la burbera caposala fa finta di non vedere, anzi permette varie benefiche infrazioni. La signora mamma ha introdotto il linguaggio dei fiori e del buon cibo nella quotidiana sofferenza dei molti malati di cancro. Una forma di vita che prima non esisteva. E alimenta anche la conversazione, molti fanno a gara
nel raccontare un qualche pranzo o ricetta, oppure parlano di quanto sia importante il ruolo dei congiunti. Il cancro non si affronta da soli. Questo lo sappiamo tutti, ma stargli di faccia insieme non è facile. Bisogna trovare i modi e le forme. Imbandire una tavola è uno di questi.
I malati dicono la verità quasi sempre solo l’un l’altro. Con i compagni del reparto C si sfogano, maledicono, criticano, a volte piangono o ridono, scherzano, inventano storielle, si raccontano gli amori per la bella infermiera o la procace giornalaia.
Con i congiunti e gli amici tendi a ridurre, diminuire, addolcire soprattutto i tuoi stati d’animo peggiori e quella rete di dolori fisici sempre più insistenti.
Con i conoscenti ti limiti a dire le cose stringate, non vuoi apparire lamentoso.
Con i medici rimane sempre qualche non detto, essi sono i tuoi salvatori se ce la fanno, ma anche i tuoi martellanti guardiani.
L’amico pugliese nel tempo antico di stravizi rivoluzionari, è ricoverato avendo un carcinoma ai polmoni. I medici raccomandano che non fumi, invece egli fugge a passeggio nel viale alberato dell’ospedale dove su una panchina lo incontri mentre fuma. Beato. Quelle poche boccate sono la sua vita, e probabilmente aiutano la sua morte. Nessuno capisce dove le trovi, ma il rito si ripete ogni giorno. Anche questo è un modo per gridare: io non sono il mio cancro.
Avviandomi a finire, seppure moltissimo altro ci sarebbe, credo che costruire una lingua per dire il cancro, inventando le forme di vita che sappiano farvi fronte, potrebbe essere molto utile in una forma come quella degli alcolisti anonimi.
Luoghi cioè dove potere discutere, raccontare, scambiare notizie informazioni sentimenti nell’anonimato, con piena libertà incontrandoci tra esseri umani che hanno vissuto o vivono l’esperienza del cancro.
Di questi luoghi ce ne vorrebbe uno in ogni grande ospedale.
Il cancro non solo devasta le cellule e il corpo, il cancro intossica contamina inquina anche la mente, rischiando di impossessarsene: ritrovarsi tra simili per disintossicarsi insieme potrebbe essere una buona e solidale forma di vita contro l’angoscia, la paura, i momenti di disperazione. Perchè tutto ciò che è dicibile, rende più sopportabile anche l’insopportabile.
Nella strada per la vita camminano anche le terapie, di cui diremo nella prossima ultima tappa di questo breve viaggio esplorando la costellazione del Cancro.