So contemporary / Marina Abramović

La vita e l’opera dell’artista jugoslava

di Giusi Affronti

Belgrado 1974 | Venezia 1997 – Conoscere la propria terra equivale a capire se stessi: assolversi o condannarsi. Ventitré anni, un numero imprecisato di città e due performance puntellano l’inizio e la fine della storia che lega Marina Abramović ai Balcani.

Nasce a Belgrado, il 30 novembre, con un giorno di ritardo sul calendario della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Qui, nel 1974, presso lo Studentski Kulturni Centar, flirtando con la morte in nome dell’arte, presenta Rhythm 5. Il pubblico siede intorno a una grande stella a cinque punte, in legno: Abramović la riempie di trucioli, dei suoi capelli neri e delle sue unghie. La cosparge di benzina, la incendia e vi si sdraia al centro, quasi crocefissa e immobile, fino a perdere i sensi tra lo sfavillio fumoso delle fiamme. Morire per un’idea, insomma, in una roulette russa del corpo e dei nervi: quella di Marina sfida il patriottismo di chi, come i suoi genitori – entrambi partigiani della Resistenza jugoslava durante la Seconda Guerra Mondiale –, sacrifica sé stesso in nome dello Stato. Attraverso la sfibrante pratica della Performance Art che non contempla l’artificio teatrale della quarta parete, Abramović compie un’azione iconoclasta contro il simbolo del comunismo e, soprattutto, sperimenta sulla propria carne un vertiginoso rituale di passaggio che la consegnerà, per tutta la vita, a un’insaziabile ricerca di libertà.

Ha ventisette anni ma, quella sera, rientra a casa alle dieci, prima del coprifuoco. Abramović riceve un’educazione di stampo sovietico dalla madre che impone alla famiglia un regime militaresco: Bach, lunghe passeggiate e pomeriggi nei caffè a leggere i classici della letteratura francese.

Marina raccoglie i capelli con i bastoncini dello Shangai, ascolta i Ramones, sogna di imparare il tango argentino e, dotata di un umorismo sconcio tipicamente balcanico, annota appunti e ghirigori sui sottobicchieri per la birra nel corso delle sue serate in compagnia dell’uomo che ama, l’artista tedesco Uew Laysiepen.

E’ per Ulay che, nel 1976, lascia la Jugoslavia rinunciando a un incarico come assistente universitario all’Accademia di Novi Sad. Partner nella vita e nell’arte, vivono un’esistenza simbiotica e nomade in giro per l’Europa, a bordo di un furgone Citroen HY. Sprofondano l’uno nell’altra in un amore divorante. Il loro passo più vicino al matrimonio è un piccolo tre rosso, tatuato sull’anulare della mano sinistra. Si separano dodici anni dopo e, per farlo, camminano per 3863 chilometri lungo la Muraglia Cinese (“The Lovers”), provenendo lui dal deserto del Gobi e lei dal Mar Giallo: s’incontrano in un canyon – per poi lasciarsi definitivamente – dopo novanta giorni di marcia, sciogliendosi in un tenero abbraccio.

 

Rhythm 5

 

È già successo di esacerbare una separazione attraverso l’arte: Abramović lascia Belgrado dopo aver distillato le sue radici culturali in una trilogia di performance che spossa corpo e mente in uno straziante commiato alla città: “Freeing the Voice”, “Freeing the Memory” e “Freeing the Body” (1976). In breve, una terapia autosomministrata di resistenza e liberazione. Urlare, per tre ore di fila, fino a perdere la voce; pronunciare, in una sequenza casuale di termini, tutte le parole che ricorda a memoria in uno sforzo di concentrazione sfiancante; ballare, nuda e allo stremo delle forze, al ritmo primitivo di un bongo afrocubano.

Farsi contenitore vuoto, insomma, per inseguire la missione dell’Art Vital fino a vincere il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, nel 1997. Abramović è chiamata a rappresentare Serbia e Montenegro – unica alleanza rimasta della vecchia federazione di Tito – all’interno del padiglione jugoslavo: ventuno anni dopo aver lasciato Belgrado, riceve riconoscimento ufficiale dal Ministero della Cultura. Salvo, poi, disdire la commissione alla notizia delle prime indiscrezioni circa la performance cruenta che l’artista avrebbe messo in scena ai Giardini. Un’azione drammatica di cordoglio per i massacri in corso nei Balcani in nome della ferocia nazionalista. Ché l’unica trincea in cui vale la pena combattere è l’avanguardia dell’arte capace di trasformare la società.

Abramović partecipa all’Esposizione Internazionale d’Arte Contemporanea di Venezia da gitana, senza rappresentare nessuna nazione, dedicando, però, alla sua Serbia dilaniata dai conflitti Balkan Baroque.

Proietta immagini d’interviste ai suoi genitori in cui raccontano storie di guerra. Un altro video descrive, in una metafora brutale, una tecnica della tradizione serba per uccidere i ratti: creare un “topo lupo” che, reso cieco e digiuno, massacra la sua stessa tribù. In un umido sotterraneo, vestita di bianco, Abramović siede in cima a un tumulo di ossa, tra nervi e cartilagini. Rimane quattro giorni – sette ore ogni giorno – a sfregare i resti animali fino a lavarne il sangue, con ostinazione. Piange sommessamente, canticchia canzoni del folclore balcanico.

Barocco è l’eccesso della violenza che si compie al di là dell’Adriatico, nel suo paese in guerra. Una performance che commuove e impregna pelle e capelli degli astanti di un tanfo rancido e disgustoso: un’espiazione dei sensi collettiva per scrostare dalla coscienza i crimini dell’indifferenza.

<<L’artista è presente>>: è qui e ora, è storia e vita. E’ uno specchio che ci rivolta contro la fisionomia del mondo e il ritratto di ciascuno di noi. E lo fa con un’energia magnetica e generosa, quando si dà al pubblico, in una grande sala vuota del MOMA di New York, dove sta seduta immobile sei giorni a settimana, dall’apertura alla chiusura delle porte del museo. Giorno dopo giorno, da marzo a maggio 2010, ospita nella sedia di fronte a lei, uno alla volta, gli spettatori. Ogni sguardo occhi negli occhi significa dedicarsi all’altro completamente, intensamente. E’ un corto circuito che percuote l’anima a suon di fisarmonica. Marina Abramović non può essere di uno: di Ulay o della Serbia. Appartiene a tutti.