Verso Capo Nord

Il progetto del fotografo Matteo Di Giovanni: un reportage giornalistico fino alla punta della Norvegia. Q Code Magazine lo ha intervistato

di Marta Clinco

Matteo Di Giovanni nel 2011 si trova sui Balcani per completare il Master in fotogiornalismo della Westminster University. È in Bosnia, quando resta coinvolto in un grave incidente stradale in cui rischia la vita. Dopo alcuni mesi di coma, si sveglia – ha subìto l’amputazione di una gamba, la sinistra. Da quel momento la sua vita cambia radicalmente. Ma in qualche modo continua, riparte. Non ricorda nulla dell’accaduto, ma non dimentica la grande passione per la fotografia. Mesi, anni di riabilitazione, miglioramenti e progressi nella tecnologia e nella funzionalità delle protesi hanno portato Matteo a rimettersi in gioco. Reaching the Cape è il viaggio on the road in crowdfunding che ha deciso di intraprendere con l’amico fotogiornalista e videomaker, Lucas Pernin, che documenterà i due mesi dall’Italia a Capo Nord, andata e ritorno, da un altro punto di vista.

Reaching the Cape. Quando, dove e perché?

Matteo: L’idea – come spesso accade, almeno per me – è nata in un periodo difficile, in cui ero costretto a casa sia da questioni tecniche, sia da questioni burocratiche relative alla protesi. Ero appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti – viaggio che molto probabilmente non avrei dovuto fare. Ho trascorso più di un mese fermo, con tanta rabbia dentro. Ma mi è servita anche per riordinare le idee.
È partito tutto da lì: proprio in quel periodo arrivavano finalmente le prime recensioni – se così possiamo chiamarle – sulle protesi a controllo elettronico resistenti e adatte anche all’acqua.
Ho così unito i tre elementi: una protesi che finalmente non mi avrebbe dato più le problemi legati alle variazioni climatiche, la mia grande passione per il viaggio, la fotografia come mezzo espressivo.

Lucas:, “Sei pazzo?” è stata all’incirca questa la mia reazione quando Matteo mi ha chiesto se l’avrei accompagnato nel viaggio. Subito dopo una breve pausa dall’effetto drammatico: “Certo che vengo”. Credo abbia pensato a me per diversi motivi. Il primo è sicuramente che il pazzo in realtà sono io – condizione fondamentale di chi ha come passione la fotografia. L’altro è la storia della nostra conoscenza: studiavamo per lo stesso Master in fotogiornalismo alla Westminster University. Ci siamo trovati subito: avevamo molto in comune – esperienze simili, stessi interessi per quanto riguarda fotografi e fotografia, l’aspetto artistico, la filosofia. Quello più importante sono ovviamente gli stessi gusti condivisi in materia di birra e vino (e di pub, come il Wenlock Arms di Londra).
Ricordo ancora che quando ho saputo dell’incidente di Matteo in Bosnia mi trovavo a Beirut, Cafe Younes, lavoravo a un’intervista. Non ci ho creduto finché non l’ho visto collegato a tutti quei tubi, a tutte quelle macchine. Era in coma.
Ma si era svegliato. Durante la riabilitazione si parlava sempre di continuare a fare fotografia. Ovviamente non poteva continuare a fare fotogiornalismo con una sola gamba, dovevamo mettere a punto un approccio più lento. Il large e medium format ci sono sembrati la scelta più ovvia dal momento che richiedono tempo, non importa se si hanno una o due gambe.
Road trip, viaggi e movimento hanno sempre affascinato gli storyteller, è un vero e proprio metodo consolidato. Da Franks a Soth, passando per Wenders: hanno seguito tutti lo stesso modello. Si parte dal punto A per vedere cosa succede nel tentativo di raggiungere il punto B. E si lascia correre l’immaginazione: sei di nuovo un bambino che guarda la mappa e si chiede che cosa si nasconda dietro quei luoghi con quegli strani nomi.
Onestamente credo che questo progetto sia anche la vendetta di Matteo contro l’idiota che per poco non ha messo fine alla sua vita, e che in ogni caso l’ha cambiata molto. È una sfida, e io sono felice di essere lì con lui per un altro viaggio. L’ultimo che abbiamo fatto è stato da Roma a Londra, quando ha dovuto prendere la roba che aveva lasciato lì prima dell’incidente. Nulla vale le persone che abbiamo incontrato, le conversazioni che abbiamo avuto durante il viaggio.

Da dove nasce la passione per la fotografia, e qual è stato – se c’è stato – il momento di svolta nella tua vita?

M: Mio zio era fotografo. Se ne è andato quando ero ancora un bambino. Ha però lasciato negativi, libri di fotografia e una Konica T3, una macchina degli anni ’70. Da ragazzino spesso sfogliavo quei libri, giocavo con quella macchina. A quel tempo ci si metteva tanto per capire se una foto l’avevi “sbagliata” o meno: dovevi annotarti tutto – carta, penna, rullini, robe arcaiche.
È comunque rimasto sempre un gioco, fino a quando mi sono trasferito a Roma per studiare e ho incontrato un fotografo dal nome difficile da confondere: Oliviero Olivieri. Eravamo a Monti, io e il mio professore di Filosofia, e Oliviero scendeva per Via dei Serpenti con una stampa enorme. Mentre scendeva, parlava con noi di questa macchina favolosa dei primi del Novecento: un banco ottico Gandolfi. All’epoca non sapevo nemmeno cosa fosse, gli ho chiesto di poterla vedere. Di lì a poco, avremmo lavorato insieme. Sono diventato il suo assistente – prima in camera oscura, poi in viaggio.
La svolta è arrivata dopo qualche anno – anzi, ce ne sarebbero due. La prima riguarda sempre Oliviero. Dopo anni di lavoro assieme, arriva l’aut-aut: a Roma non c’è più il mercato di una volta (si trattava proprio di uno dei periodi più critici per la fotografia, la rivoluzione digitale stava cambiando radicalmente ogni cosa); mi dà qualche mese di tempo per trasferirmi, Londra o New York. Avrei preferito New York, ma alla fine ho scelto Londra. Dopo le canoniche fatiche iniziali nei ristoranti, arriviamo alla seconda svolta: vengo preso per un Master in Fotogiornalismo alla Westminster University. Nel giro di qualche mese cambia tutto: finalmente inizio a lavorare con una ONG nei Balcani. Poco dopo – mi trovavo proprio sui Balcani, dove avrei completato il Master – ho avuto l’incidente.

L: Voglio essere quello che racconta la storia. È così semplice: amo ascoltare, immergermi nelle vite degli altri, vedere come vivono la loro quotidianità. A differenza di molti, il mio incontro con la fotografia non è stato precoce. Era praticamente l’unica arte visiva con cui riuscivo a rapportarmi, per dare una mia interpretazione e lettura di ciò che vedevo. La passione è venuta dopo: la combinazione fotografia-attivismo è stata cruciale. Una manifestazione in Palestina cui ho partecipato sicuramente è stato un momento importante e ha contribuito alle mie scelte, ma non è stato esattamente un punto di svolta. Non c’è nessuno punto di svolta, ci sono solo tanti momenti in cui si sceglie se fare ciò che è giusto anche per l’altro o meno. Quando ho scoperto di essere figlio di esuli, quando ho capito che sarei sempre stato trattato come un estraneo, ho provato una rabbia profonda, e il desiderio di fare qualcosa. Raccontare storie era una delle possibilità. Ci sono poche cose che amo tanto quanto la fotografia: è uno strumento in grado di aprire finestre sulla vita degli altri, basta una macchina fotografica. Voglio descrivere ciò che vedo con onestà – è un privilegio per me avere questa possibilità, una ricchezza che non ha pari. La responsabilità che ne deriva è grande, e spesso continua a pesare anche anni dopo che la storia è stata raccontata. Ho fatto loro giustizia con le mie parole, con le mie immagini? Era una rappresentazione onesta? Il lavoro è riuscito a raggiungere un pubblico abbastanza vasto?
Quello che comunque posso dire con certezza è che un punto di svolta – insomma, uno di quei momenti – si vive con più probabilità durante una conversazione sincera, davanti a una bottiglia di buon vino. Non seduto a una scrivania, davanti a uno schermo, in una stanza al quattordicesimo piano di un albergo.

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Fotogiornalismo e fotografia come notizia, intesa come frammento di un evento, evento sociale o suo tramite. L’immagine può aiutare a far durare un evento, una notizia oltre il tempo di un click, e infine a innestare il ricordo, la memoria?

M: Più il mondo va veloce, più la fotografia acquisisce importanza. Sembra assurdo: è l’unico medium in controtendenza col bombardamento sistematico a cui siamo sottoposti, l’unico che ti costringa a fermarti. Ovviamente mi riferisco alla fotografia non fruita in rete, ma in altri spazi, che ti concedono più tempo, concetto molto relativo sul web.
Ad oggi, io riesco ad immaginare la fotografia di news solo come parte di un lavoro più grande, un progetto che il fotografo porta avanti e poi mette insieme. Non esiste più un sistema in grado di permettere la sopravvivenza con il solo fotogiornalismo: le foto sul web sono sempre più prese da agenzie stock, e quando arrivano dai fotografi sono pagate una miseria. Una volta i fotografi e i giornalisti venivano mandati on assignment, ma oggi avviene sempre più raramente, per pochi fortunati.
È ovvio in questo ambito tenda ad acquisire sempre più importanza una foto che abbia un effetto immediato. Si hanno a disposizione pochi secondi per visualizzazione. Ma proprio questo modo di fruire la fotografia ovviamente mette in crisi il suo valore principale, ovvero la possibilità di guardare e capire – vedere e comprendere. Invece si finisce per scorrere le immagini delle gallerie online in pochissimo tempo, e sono il primo a farlo. Devo forzarmi per riuscire a guardare con attenzione una foto online.

L: Tutti noi storyteller viviamo in frammenti di tempo, cercando di afferrare l’attimo, ed è questa la la bellezza di tutto questo. Non c’è nessuna grande missione, non si tratta di cambiare il mondo: ci sono tantissimi diversi narratori che mostrano ciò che sta accadendo, scatto dopo scatto. E stiamo in qualche modo tutti contribuendo alla storia del nostro tempo. La sola differenza rispetto al passato è che siamo tanti, davvero tanti a fare questo lavoro. Alcuni bene, alcuni molto meno.

E questo inevitabilmente ci porta alla questione etica, in particolare al tema del rapporto soggetto-oggetto, autentificazione-falsificazione, distacco-partecipazione, e ancor più direttamente alla vicinanza del fotografo con l’oggetto. È molto nota la citazione attribuita a Robert Capa: “Se il tuo scatto non è abbastanza buono, significa che non eri abbastanza vicino”. Una tua opinione a riguardo, anche riflettendo su passate esperienze lavorative o artistiche.

M: Sarò sincero: il mestiere del fotogiornalista “classico” non posso più farlo per ragioni legate alla mobilità, nel senso che non posso correre su e giù, saltare, ecc. La cosa paradossale è che non mi dispiace affatto non poterlo fare. Certo, mi dispiace non poter più correre e saltare, ma non in relazione al mio lavoro. La fotografia frettolosa – fatta in due tre giorni se va bene – non mi interessa più, proprio perché il dualismo distacco-partecipazione di cui parli diventa insormontabile. Più che la frase di Capa, prenderei in considerazione il tempo trascorso in una determinata situazione: le tue foto non sono abbastanza buone se non trascorri abbastanza tempo in una determinata situazione, partecipando, e soprattutto rompendo la barriera soggetto-oggetto. Per infrangere quella barriera servono tempo e qualità. Solo facendo questo passo si può arrivare ad avere fotografie potenti. Solo quando quella barriera è rotta, puoi avere la certezza che la persona che hai davanti si comporti naturalmente. Altrimenti si comporterà da oggetto, perché sa di essere fotografato.

L: Personalmente, sono più per la versione di Tod Papageorge: “Se le tue foto non sono abbastanza buone, significa che non stai leggendo abbastanza”. Dipende anzitutto dal contesto. Una delle mie regole è investire di sé stessi tanto quanto si vuole dall’altro. Non bisogna rubare tempo alle persone, sprecare la loro fiducia se non si ha intenzione di renderne un quadro onesto. Ed è necessario essere consapevoli del fatto che dopo di noi ci saranno sicuramente altri narratori. Quindi non prendiamoci gioco delle persone che credono nei giornalisti, e ai giornalisti si affidano. Non sopporto chi entra in una storia, in una realtà che non conosce, non ha studiato e quindi non può capirne i codici sociali e culturali, e pretende di raccontarla. E allo stesso modo non sopporto chi decide di raccontare storie per le ragioni sbagliate.
Ma questo non risponde precisamente alla questione Capa. Faccio molto lavoro di ricerca ancora prima del primo scatto, interviste, cerco di capire ciò cui mi sto avvicinando, mi confronto con i risultati di quanti prima di me hanno cercato di fare lo stesso, con il loro approccio al problema. Se non innesti una relazione, una sorta di partecipazione con il tema e i soggetti, questo distacco comparirà anche nella tua fotografia. E per quelli sostengono la possibilità di mantenere il distacco, di volare sulla superficie delle cose come spettatori invisibili, beh… Per me è impossibile, l’inquinamento è inevitabile. Non appena si entra in una stanza con una macchina fotografica visibile si modifica anche l’atmosfera, e così sarà fino a quando il soggetto e il suo obiettivo rimarranno sulla scena. Certo non è questa l’unica realtà, l’unica verità possibile, ma è la mia realtà, la mia verità. Ed è pericoloso perché molti di quelli che fanno questo mestiere lavorano esclusivamente per sé, non per gli altri.
Dobbiamo prima di tutto rispettare ciò che vogliamo raccontare.

Analogico o digitale, e perché?

M: Analogico, per tanti motivi. Il primo è che finalmente dopo anni possiamo superare la comparazione diretta dei due mezzi, senza più polemizzare su cosa sia meglio e cosa sia peggio.
Per me è semplicemente una modalità di approccio: scatto meno, controllo i risultati su carta, e poi vado avanti. Soprattutto, in questo modo innesto una diversa relazione con le persone e i luoghi che fotografo.
Odio guardare le foto mentre scatto.
Infine, il processo analogico nel mio caso è anche per certi aspetti terapeutico. Il tempo trascorso in camera oscura è prezioso, non lo cambierei con nient’altro, o quasi.

L: Non sopporto più questa diatriba. Personalmente faccio entrambe le cose. Per me non si tratta di pellicola o digitale. Se amo scattare in analogico? Certamente. Il suono dell’otturatore sulla Hasselblad è incredibile, insieme a tutto il resto. Ho un profondo rapporto con l’analogico, ma allo stesso modo ho una bellissima relazione con la fotografia digitale.
L’aspetto per me il più importante è che quando scatto in medium format sono costretto a rallentare, pensare e affrontare il mio tema in modo diverso rispetto a quando utilizzo il digitale. Questo cambia ovviamente del tutto il risultato. Si tratta di una scelta estetica.
Ma alla fine il punto resta sempre la storia. Alcune storie non sono adatte all’immagine in generale, ma sono perfette per la radio. Allo stesso modo alcune storie funzionano molto bene con i buoni, vecchi 35 mm large format.

È davvero in corso a tuo avviso una crisi del fotogiornalismo?

M: Crisi direi di no, vengono prodotte tante belle storie. Sicuramente è in corso una rimodulazione della figura del fotogiornalista, conseguenza di ciò che spiegavo prima. Bisogna trovare altri canali attraverso cui pubblicare, perché giornali e riviste non garantiscono più la sopravvivenza. Spesso buoni canali sono i festival e concorsi, in continuo aumento, e le varie fellowship, ma solo quando si dispone già di una discreta fama e posizione sul mercato del settore. Bisogna imparare a muoversi bene in questi nuovi contesti, dove le regole sono ben diverse da quelle che abbiamo sempre osservato per quanto riguarda i media tradizionali.

L: Non c’è nessuna crisi nel fotogiornalismo: ci saranno sempre grandi storie da raccontare, e il linguaggio della narrazione visiva è in continua evoluzione. Il problema sta nel fatto che si investe sempre di più in “notizie” di intrattenimento piuttosto che sulle problematiche sociali, ambientali, etc. Se i fotogiornalisti, gli storyteller, i giornalisti fossero pagati come e quanto sarebbe giusto, certo molte più storie verrebbero raccontate, e sempre meglio.

Hai dei modelli cui ti ispiri?

M: Molti. Dai vari Stephen Shore e Joel Sternfeld, fino ad arrivare a giovani come Rafal Milach. Adoro i suoi lavori.

L: Beh, non sono pochi: Rena Effendi, Olivia Arthur, Wim Wenders. Ho un debole per Koudelka. L’elenco è in continua evoluzione, ma quelli che ho citato sono stati fonte di ispirazione per molto tempo – tanto per le fotografie, quanto per l’approccio e il modo in cui parlano del loro lavoro. Sono ispirato e attratto da coloro che non si risparmiano, e dedicano sé stessi completamente alle loro storie.

Progetti e idee per il futuro

M: Sto investendo tante energie in questo viaggio che spero venga finanziato dal crowdfunding, in modo da darmi maggiori possibilità in futuro – nel senso che poi ci sarà da investire in tutta la post-produzione. Ho già in mente diverse piccole pubblicazioni, alcuni incontri tematici, e mi piacerebbe puntare tanto su una mostra itinerante. Partire dal Festival della Fotografia Etica di Lodi per poi muovermi in tutta Europa con la stessa mostra. Quasi tutto il 2016 sarà dedicato a questo.
Nel frattempo vorrei tanto sviluppare un lavoro che ho in testa da tempo riguardo il fiume Po. Parte da una considerazione semplicissima: banalmente, se tutto ciò che è successo non fosse mai accaduto, non sarei mai finito a Milano. Per questo sento il forte bisogno di realizzare un lavoro proprio su questo territorio.

L: Sto cercando di riprendere vecchie storie, alcune più intensamente di altre. Anche le idee sono in continua evoluzione. Ho un intero elenco di progetti, alcuni ovviamente devono ancora maturare. Per ora ce n’è uno, il più importante, in cima alla lista: aiutare Matteo nel suo viaggio, la mia priorità per l’autunno.

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