Social Housing – not social cleaning

L’eco dei cori precedeva il cordone di manifestanti che lo scorso sabato pomeriggio sfilava per le strade di Stratford, North East London, sotto un sole troppo caldo per la stagione.

Da Londra,
testo e foto di Marta Clinco

Torna infatti l’autunno, e con lui il dibattito sempre attuale sul problema del social housing, il sistema delle case popolari ormai al collasso nella grande capitale britannica, una delle città dove il costo della vita è più elevato, non solo a livello europeo, e dove riuscire a comprare una casa o anche solo pagare l’affitto è diventato negli anni sempre più difficile. Per molti resta ancora impossibile: nonostante i sussidi, i prezzi elevati e i salari bassi continuano a tenere molte famiglie col fiato sospeso, ai margini della società e della città stessa, dove le periferie si allontanano sempre più dal centro, in tutti i sensi.

Sono lontani i tempi in cui il giornalista Henry Mayhew, molto attento alle tematiche sociali, descriveva così sul Morning Chronicle la zona di Bethnal Green – oggi area principalmente residenziale, di certo poco economica, a pochi minuti di tube dal centro: “Non ci sono strade, solo qualche vicolo, le case sono piccole, senza fondamenta, divise e spesso circondate da cortili non asfaltati. La quasi totale mancanza di fognature e sistemi di scarico è stata aggravata dalle pozze formatesi in seguito agli scavi per i mattoni. Maiali e mucche vengono tenuti nei cortili, si adoperano pratiche nocive come la bollitura della trippa, viene sciolto il sego, si cucina la carne di gatto, e al degrado si aggiunge quello dei macelli, dei cumuli di spazzatura e dei lakes of putrefying night soil”. L’eufemismo per “latrine a cielo aperto” chiudeva l’articolo di Mayhew nel 1851. Da allora il centro londinese si è allargato, le stazioni della metropolitana si sono moltiplicate, fino a raggiungere la famigerata zona 6, il non-luogo lontano, lontano, al capolinea di qualche linea di bus. E le periferie, sovraffollate anch’esse, sono implose. Per effetto di errate politiche passate (si parla ancora di epoca thatcheriana) molte abitazioni di proprietà statale sono finite nelle mani di privati, senza che ricavato venisse reinvestito in opere di social housing. E ad oggi – nonostante si continui a costruire, ora verso l’alto – le case popolari sono sempre meno. Ad aumentare sono tutte quelle famiglie che, vittime di nuovi cavilli burocratici, perdono il diritto al sussidio e alla casa.

Molte le abbiamo viste alla manifestazione di sabato, che non a caso si è tenuta a Stratford, storico nodo ferroviario e mercantile, cuore industriale a nord della città, tra i 35 major centres descritti nel Piano di Londra, la strategia di sviluppo territoriale attualmente in vigore nella capitale che tra gli obiettivi, al primo punto, reca: “Garantire che Londra sia una città che soddisfi la sfide della crescita economica e demografica”.

Stratford, una di quelle vecchie periferie dove la riqualificazione non avrebbe mai funzionato, dove i centri commerciali – lo Stratford Centre negli anni Settanta prima, l’immenso Westfield poi – non hanno mai portato abbastanza lavoro, dove nascevano le grandi gang e la piccola criminalità: la stessa Stratford vive oggi all’ombra di nuovissimi palazzi ancora vuoti, immensi, metallici e austeri. Quasi si confondono con quel cielo di Londra che anche sabato, nonostante il caldo, finiva talvolta oscurato dalle nuvole. Ma nessuno di quei manifestanti pareva sentirsi piccolo, in confronto a quei giganti troppo alti.

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La marcia organizzata dal neonato comitato Focus E15 (http://focuse15.org/) si arresta proprio in uno dei quartieri popolari. 1000 palloncini, grigi anch’essi, vengono lasciati volare in cielo, simbolo delle oltre 50.000 famiglie costrette a lasciare la città negli ultimi tre anni. Per oggi pare tutto finito. Ma c’è chi ancora fa la fila per due minuti di microfono con la voglia di raccontare la propria storia, e per un momento sentirsi ascoltato.