La stazione di Keleti, tra le tracce del passaggio dei profughi e i problemi dell’Ungheria
di Tano Siracusa, da Budapest
video di Tano Siracusa e Sonia Marrese
Budapest 18 settembre, tardo pomeriggio alla stazione Keleti: stanno per partire gli ultimi due piccoli furgoni di aiuti diretti in Croazia, dove ormai il fiume dei profughi è giunto. Vestiti, cibo, acqua, medicine. Una decina di volontari trasporta i pacchi depositati in un locale nel piano basso della stazione fino al furgoncino ormai quasi pieno, posteggiato davanti la facciata monumentale di Keleti.
Giù ancora qualche famiglia accampata, un ragazzo che chiede gentilmente di non fotografare, un uomo sdraiato su un materassino. Diego Cupolo è un volontario, poliglotta e giramondo, giornalista, che ci raccomanda di stare attenti al furgone rimasto incustodito.
Sergio invece è un italiano che vive a Budapest, ha un negozio in centro e fin dai primi giorni è venuto qui a portare qualcosa, a dare una mano. Ci chiede di non essere ripreso perchè i volontari residenti, quel centinaio di persone che si è mobilitato nell’ultima settimana, non viene visto di buon occhio dalla maggioranza della popolazione.
E’ entrato, come altri, un giorno dopo l’altro nella stazione-accampamento, trasformandosi da testimone in volontario.
Racconta che una sera è arrivato un gruppo di neonazisti, una ventina, si sono messi a gridare alle migialia di persone accampate che non erano gradite. Alcuni siriani sono andati a parlare, hanno spiegato che loro avrebbero voluto andarsene ma glielo impedivano, hanno provato a ragionare.
I neonazisti continuavano a far casino, i profughi hanno spiegato meglio la situazione: lì c’erano migliaia di persone che avevano visto e vissuto di tutto, se non se ne andavano poteva finire male. Se ne sono andati. Loro, spiega Sergio, stavano qui da giorni bloccati dalle autorità, alcuni avevano comprato il biglietto per la Germania. Lo ha impressionato la mancanza di tensione fra i vari gruppi, la mancanza di violenza in quel caos, senza cibo e acqua, con quattro bagni a disposizione, con il caldo e l’inevitabile sporcizia e l’assoluta mancanza di soccorsi internazionali.
Niente Croce Rossa, niente convogli e aiuti umanitari dai governi europei, nessuna presenza di parrocchie, niente solidarietà dal Vescovo che ha invece parlato di clandestini, di leggi da rispettare. Solo Medici senza frontiere, qualche piccolo gruppo più organizzato di volontari, e gente come lui, come Sergio, cittadini di Budapest che in numero crescente cominciavano a portare qualcosa. Soprattutto quando i profughi hanno deciso di muoversi a piedi. Allora molti sono scesi per strada, hanno aiutato.
Per Sergio, che non ha appartenenze politiche, l’atteggiamento ostile di gran parte della popolazione si spiega soprattutto con il sistema dell’informazione, le televisioni più ancora della diretta proganda governativa. In tv, spiega, non inquadravano le donne e i bambini, solo uomini minacciosi, e su face book circolavano video dove un ragazzo vestito da profugo faceva il gesto del tagliagole.
Si mette paura alla gente. E poi, aggiunge, ci sono i poveri di Budapest, migliaia di persone per strada, senza un tetto, che vivono nei marciapiedi, dormono nelle stazioni del metrò. Si spiega anche così l’ostilità verso i profughi. Perchè, dicono in tanti, non aiutano prima loro, gli ungheresi che non ce la fanno? Sono loro i nostri profughi.
Il populismo antieuropeo di Orbàn e delle destre radicali intercetta forse anche gli umori profondi di un paese che in due secoli ha vissuto la parabola di un vertiginoso sviluppo e di un rapido, profondo decadimento; dai fasti architettonici della capitale asburgica, che edificava gran parte del suo patrimonio monumentale pubblico e privato nei trenta anni che precedono la grande guerra, che rivaleggiava con Vienna nelle architetture neoclassiche e liberty (aggiungendovi l’originalità degli elementi architettonici di ascendenza ottomana), alla dominazione nazista e poi a quella sovietica; dal cosmopolitismo mittleeuropeo al conformismo di regime. E poi la rivolta e il terrore del ’56.
Una grande capitale europea che a un quarto di secolo dal disfacimento dell’impero sovietico mostra orgogliosa ai tanti turisti gli splendori del suo passato asburgico, i suoi parchi, le sue piazze, le chiese e i palazzi, i musei e le terme, la sua grandeur di capitale imperiale, la sua cultura. Una città incantata dal suo passato ormai lontano che riemerge dopo un secolo di tragedie e di marginalizzazione internazionale.
Il crescente isolamento europeo sembra esprimere oggi più il risentimento e la frustrazione per l’attuale declassamento che tracciare un disegno di ampio respiro per proporsi come ponte fra Europa e Russia, come storia e geografia sembrano suggerire. Blindandosi di fronte al fiume di profughi provenienti dalle rotte balcaniche , sfidando la Germania e la maggioranza dei paesi europei, l’Ungheria di Orbàn ha reso ancora più vistosa la sua vicinanza a Putin in una fase di crescente tensione fra Occidente e Russia.
Il 19 pomeriggio alla stazione di Kemeti hanno già ripulito tutto. Hanno anche tolto la scritta dell’associazione di volontari che aveva raccolto e organizzato i soccorsi, che in quelle giornate infernali aveva testimoniato un po’ di cristianesimo e di generica solidarietà umana nel cuore dell’ Europa postcristiana e postilluminista. Adesso l’inferno si è spostato altrove, fra Serbia, Croazia e Slovenia, a Budapest non è rimasta traccia. Da qui è invisibile.
La città ha ripreso la sua pulsazione normale, che ha però, sullo sfondo dello scenografico flusso visivo destinato ai turisti, ritmi e abitudini differenti anche a pochi isolati di distanza.
A poche centinaia di metri da Keleti, ad esempio, staziona una comunità di uomini e donne senza tetto, alcolizzati, probabilmente relitti del comunismo travolti poi dal mercato e dalle politiche liberiste della destra. Qualcuno ha il lusso di un materasso. Frugano nella spazzatura, non chiedono l’elemosina, hanno sempre una bottiglia in mano o nella sacca. Dall’altra parte del grande viale che dalla stazione porta al Danubio, sorge invece il quartiere ebraico, a ridosso della imponente Sinagoga.
E’ una città al centro della città, sembra ovattata, con i suoi piccoli negozi, le caffetterie, i locali arredati con gusto, a volte con felice creatività, la sua vita notturna intensa ma non chiassosa. Da qui nel 1944 la maggior parte della popolazione venne deportata nei campi di concentramento e non fece ritorno. Il governo filonazista ungherese collaborò attivamente alla deportazione e all’annientamento della più grande comunità ebraica europea.
Nei giorni scorsi la filosofa ungherese Agnes Heller riconosceva con sgomento nella propaganda governativa di oggi contro i profughi, come in un brutto sogno, la forma e i contenuti della propaganda antiebraica di allora. Quanti la pensano come lei, quanti in Ungheria stanno rivivendo quell’incubo?
Sotto il il tiepido sole di settembre, al riparo dai popoli in fuga, Budapest si offre compiaciuta ai turisti e sembra sognare se stessa, i suoi antichi splendori; mentre la gente fatica, i ricchi ostentano, e i barboni nei parchi, sui marciapiedi, nelle stazioni della metropolitana, non sanno neanche che il Pil nazionale è in crescita.