Grecia, l’arte contro la crisi

La Biennale di Atene è il collettore di un movimento di artisti greci che sperimenta nuove forme di arte urbana e politica, una contro narrazione rispetto alle ferite della crisi

di Stefano Zoja, da Atene

Dalle pareti bianche pendono una trentina di ritratti della stessa persona. Sono variazioni grottesche del volto dell’ex primo ministro greco George Papandreou, che i suoi concittadini si sono abituati a guardare in tv nel periodo del suo premierato, fra il 2009 e il 2011.

Lo sguardo è inerte, lo spazio circocostante astratto. Durante il suo mandato la crisi greca si acutizzò, venne siglato il primo memorandum con la trojka dei creditori, sfumò la prima proposta di referendum sui termini del salvataggio. Cinque anni dopo la storia si ripropone simile, e le varianti non sembrano modificarne il corso.

“La pittura non serve a decodificare gli eventi politici, ma può sondarne la natura profondamente elusiva e mediatizzata”, commenta Poka-Yio, artista e direttore della giovane Biennale di Atene, che da tre anni lavora alla serie sull’ultimo esponente della dinastia politica dei Papandreou.

Questi ritratti, come le sue più recenti rivisitazioni del logo del quotidiano tedesco militante Bild, sono frammenti di un mosaico ampio e disordinato: la reazione espressiva di tanti artisti greci di fronte al dramma sociale del paese. Un controcanto alla crisi, articolato e potente, che non ha preso una direzione univoca, ma ha diffuso impulsi nell’ambito culturale e in quello della militanza, specialmente ad Atene.

Ampio collettore di questa multiforme reazione artistica è stata proprio la Biennale. Nata nel 2005, nel clima euforico post-Olimpiadi, la manifestazione prendeva di mira gli stereotipi vigenti su una Grecia rampante. “Fin dalla prima edizione, Destroy Athens, abbiamo configurato una Biennale molto politica, cercando di rimanere adeguati al nostro presente”, dice Poka-Yio, che da allora coordina la manifestazione insieme alla curatrice Xenia Kalpakstoglou.

In seguito la storia ha accelerato il passo, portando la depressione, gli scontri nelle piazze, il tracollo nelle condizioni di vita di tanti. Il tentativo della Biennale di restare significativa in questo contesto ha portato nel 2013 ad Agora, la quarta edizione, allestita presso l’ex sede della Borsa di Atene, rivitalizzata per l’occasione. Ormai la manifestazione aveva spostato il proprio baricentro dall’esibizione artistica tradizionale verso l’evento partecipativo, che promuoveva dibattiti, seminari e open call per artisti.

Molti fra i lavori presentati si interrogavano esplicitamente su temi come la finanziarizzazione dell’economia, i modelli di sviluppo alternativo, persino le tecniche per le proteste di piazza. A quel tempo erano già un paio d’anni che in molti, come il New York Times, avevano messo in relazione un certo fermento artistico greco col dramma della crisi.

“Già nel 2008 c’era stata un’esplosione del discorso politico, dopo l’uccisione del quindicenne Alexandros Grigoropoulos da parte della polizia”, racconta la curatrice d’arte Iliana Fokianaki, riferendosi a uno degli eventi più scioccanti della recente storia greca. “Ma è stato dopo il 2010, quando la crisi ha cominciato a toccare concretamente le nostre vite, che tanti hanno creduto di doversi davvero formare un’opinione politica su ciò che stava accadendo in Grecia. E nuovi artisti hanno cominciato a occuparsene nel loro lavoro”.

Iliana è fondatrice di State of Concept, una galleria d’arte no profit, unica nel suo genere ad Atene, dove espongono stranieri, ma anche tanti greci. “Gli artisti di età più avanzate sono da sempre a loro agio con l’arte politica, fin dagli anni successivi alla Dittatura dei colonnelli”.

Sono i trentacinquenni oggi che faticano a produrre arte dal taglio politico e sociale: sono cresciuti nel benessere diffuso degli anni novanta, inoltre associano all’impegno politico lo stigma legato ai partiti. “Ma mi chiedo come sia possibile non essere influenzati dal fatto di vedere qualcuno che sta frugando nella spazzatura ogni mattina in cui vai a fare colazione in panetteria. Questo in Grecia pochi anni fa non esisteva, oggi è impossibile non vederlo. Per fortuna ci sono i più giovani, meno che trentenni: loro hanno vissuto quasi solo degli anni delle proteste e della crisi. Occuparsi della vita sociale e politica gli viene naturale, e questo è rinfrancante”. Del resto a colpire, nell’intersezione fra arte e crisi in Grecia, non è tanto il numero degli artisti convertiti ai contenuti socio-politici, ma le forme che ha assunto il loro impegno.

“Una delle novità più evidenti è che gli artisti hanno cominciato a collaborare”, dice Iliana. “Cinque anni fa ciascuno stava concentrato sulle proprie piccole cose ed era diffuso un grande senso di competizione. Ora, di colpo, la gente si accorge che sta succedendo qualcosa, magari non capisce nemmeno bene cosa sia, ma sa che deve quantomeno cominciare a parlarne con gli altri”.

Eleni Tzirtzilaki di assemblee ne ha vissute tante negli ultimi quattro anni. Architetto e artista di esperienza, Eleni era presente fin dai primi giorni dell’occupazione del teatro Embros, uno dei gangli della comunità artistica ateniese negli ultimi anni. “Riattivato” a fine 2011 dal collettivo teatrale Mavili dopo anni di abbandono, nel giro di pochi mesi l’Embros è diventato sede di un’occupazione stabile, da parte di un eterogeneo gruppo di artisti.

I collegamenti con la crisi sono numerosi e decisivi, spiega Eleni: “tanto per cominciare quelli di Mavili hanno occupato perchè loro stessi, in difficoltà economiche, non avevano uno spazio dove lavorare. E’ stato anche un atto simbolico per rendere evidenti a tutti le precarie condizioni degli artisti in Grecia. Ma la forza di un movimento del genere va messo in relazione soprattutto con la diffusione della crisi”.

Attivo ancora oggi, dopo quattro tentativi di sgombero, all’Embros si sono concentrati “moltissimi eventi artistici d’impegno sociale e politico. E’ anche un rifugio per molte persone deboli, colpite più di altre dall’involuzione del paese, come i migranti, coi quali abbiamo lavorato spesso”. Eleni e il suo gruppo hanno realizzato diversi lavori su vicende migratorie legate alla Grecia degli ultimi anni.

“Ci fu un gruppo di stranieri che venne all’Embros a raccontarci il loro tentativo di arrivare in Italia, partendo da Corfù. Metà di loro morirono nel viaggio, gli altri sono venuti qui e noi ne abbiamo tratto una performance, che coinvolgeva anche artisti e persone di altri paesi: italiani, austriaci, afghani, siriani. Abbiamo lavorato sui loro racconti, confrontandoli con i resoconti giornalistici, e abbiamo cercato di fare conoscere questa storia alla città”.

Altri lavori importanti di questi anni hanno riguardato il Queer festival, o i dieci giorni di Body and politics, preparati da un anno di incontri settimanali, dove si mescolavano lavori artistici e teatrali ispirati alle teorie sul corpo di Giorgio Agamben e Judith Butler. “Ma i progetti realizzati sono stati decine”.

FOTO DI CARLO PREVOSTI

L’Embros è anche un incubatore di esperienze, poi trasferite in altri luoghi della città. Il suo palcoscenico è a disposizione per le prove di gruppi esterni, come le danzatrici africane Ubuntu, o il collettivo teatrale alternativo che si esercita su Not about nightingales di Tennessee Williams.

“Ma ha anche ispirato molti gruppi sperimentali, anche di ragazzi giovani, che sono passati da qui negli anni scorsi e hanno fondato dei piccoli collettivi”, spiega Eleni. “Loro adesso vanno nelle piazze della città, in autonomia, portando una performance o un’installazione. In pratica è la nascita dell’arte pubblica ad Atene, fino a qualche anno fa questi gruppi non esistevano”.

Un nuovo segno di vitalità artistica ateniese, di spirito di collaborazione, a compensare gli ultimi, difficili mesi dell’Embros. L’assemblea pubblica aperta ha perso coesione, la partecipazione è diminuita. “Abbiamo contaminato tante realtà e forse avremmo dovuto aprirci ancora di più all’esterno. Non so dire quale sarà il destino del teatro nei prossimi mesi. Noi stessi non sappiamo se resteremo qui, ma abbiamo già cominciato a realizzare delle cose nuove presso il parco di Pedion Tou Areos. E comunque l’influenza dell’Embros durerà. Persino il fatto che la Biennale nella precedente edizione, o in quella che si prepara per ottobre, abbia applicato la logica della rivitalizzazione degli spazi cittadini abbandonati mostra che a questa città abbiamo lasciato qualcosa”.

Oggi il teatro, di proprietà pubblica, è nelle mani del Taiped, agenzia che cura le privatizzazioni dei beni dello stato greco. Non è ancora certa la sua sorte, ma esiste un forte rischio che questo bene pubblico finisca divorato dallo stesso debito sovrano, le cui conseguenze ha combattuto negli ultimi anni.

“Oggi, per chiunque possa, è tempo di offrire. E l’Embros è stato sicuramente un’offerta alla città”. Woozy è un noto artista di strada della generazione di mezzo. La street art ateniese degli ultimi anni, oltre ad avere inondato le galleries dei quotidiani online di tutta Europa, è stata anch’essa, a suo modo, un regalo alla città.

“I writers hanno sparso molti messaggi contro la crisi per le strade, e la gente nel vederli ha avuto la sensazione di non essere sola a pensare certe cose. Ed è a questo punto che le persone trovano la forza di riunirsi e organizzarsi. Ma è proprio in quest’ultimo passaggio che dobbiamo fare di più, street artists e cittadini: i messaggi ormai per strada ci sono, li conosciamo, ora dovremmo rilanciare l’azione in forme nuove”.

La street art è dilagata nelle strade di Atene, ma per Woozy il caso più interessante è stato realizzato da un gruppo anonimo che nottetempo, nel marzo scorso, ha ricoperto l’intero edificio del Politecnico di Atene con un enorme murale astratto in bianco e nero. Sono stati necessari giorni per ripulire lo storico palazzo, ma, amplificato attraverso i giornali, il riverbero di quell’atto dimostrativo dura ancora.

“Conosco quei ragazzi. E’ come se avessero detto ‘Siamo qui, ci siamo, nonostante la crisi, il sistema dell’arte ufficiale o la vostra incomprensione’”. Woozy coltiva dubbi sull’efficacia delle grandi manifestazioni artistiche nell’offrire spunti e nel conseguire risultati contro la crisi del paese. “Meglio agire dal basso, parlare al popolo per le strade, come fa la street art”.

Anche Woozy agisce di notte, in una manciata di minuti. Negli ultimi mesi ha realizzato lavori che hanno fatto discutere. Ha dipinto diverse macchine bruciate, carcasse di automobili devastate dal passaggio delle manifestazioni di protesta. Se ne trovano molte per le strade di Atene, ma non quelle colorate dai suoi spray: la polizia le fa sparire nel giro di pochi giorni, spesso la mattina seguente. Alcuni giornali greci importanti hanno contattato Woozy, che firma questi lavori, per intervistarlo, ma lui ha sempre rifiutato.

“Volevo che la gente guardasse con occhi nuovi queste macchine bruciate, segno che qualcosa lì era accaduto. Molte di queste macchine si trovano nel quartiere di Exarchia, sono state bruciate durante una manifestazione a sostegno di una trentina di attivisti che erano in sciopero della fame da un mese. Il punto per me non era se questi attivisti avessero ragione o torto, o se ce l’avevano i manifestanti che hanno bruciato le auto, anche se non ritengo che farlo sia utile alla protesta. Volevo semplicemente evidenziare che quelle cose erano successe, gettarvi una luce, e magari suggerire la possibilità di una prospettiva nuova e positiva, attraverso questi oggetti ora così colorati e diversi. In parte è anche un messaggio agli autori degli incendi: provate a rilassarvi, parliamo di più se possibile, anche perchè i vostri gesti possono colpire proprio le manifestazioni che vorreste sostenere”.

Codici diversi e distanti da quelli di una Biennale, o anche dei collettivi artistici e teatrali che gravitano intorno all’Embros. Ma non c’è una fascia della popolazione ateniese cui in questi anni il mondo dell’arte non abbia rivolto messaggi sulla crisi.

Non è possibile un catalogo delle iniziative artistiche sorte negli ultimi anni. Dal collettivo The Depression Era, gruppo di oltre trenta fotografi e artisti, fondato nel 2011 con lo scopo di indagare la crisi attraverso linguaggi espressivi; all’ambizioso festival ReMap, discussa operazione di rilancio del quartiere di Metaxourgeio, in bilico fra sperimentazione artistica e gentrificazione; fino alle iniziative dei giovani, come lo spazio 3137, piccola galleria con laboratorio fondata da tre artisti trentenni.

Sono troppi i casi, spesso collegati a iniziative di rigenerazione urbana nel tessuto lacerato di Atene. “Sarebbe eccessivo parlare di rinascimento artistico greco, ma non ho mai trovato tanta disponibilità a innovare e collaborare come negli ultimi quattro o cinque anni”, spiega Iliana, che confida di fare evolvere State of Concept in una galleria di proprietà diffusa, nella quale gli artisti saranno partner.

In mezzo a tutto questo, nel 2017 ad Atene atterrerà anche l’astronave di documenta, la quinquennale d’arte contemporanea, fra le principali manifestazioni internazionali. Fondata nel secondo dopoguerra a Kassel, al confine tra le due Germanie, quando tutto era da ricostruire, per la prima volta nella sua storia documenta ha scelto di collaborare con un’altra città e intitolerà la nuova edizione Learning from Athens.

Partner della manifestazione sarà la Biennale di Atene di Poka-Yio e Xenia. “Adam Szymczyk, il direttore, era stato qui. Aveva capito che ad Atene stava succedendo qualcosa di importante, che siamo nel mezzo di un colossale esperimento che si gioca sul terreno sociale”, spiega Poka-Yio. Diversi componenti del team di documenta si sono trasferiti da tempo nella capitale greca e avranno l’opportunità, a partire da ottobre, di partecipare alla nuova edizione della Biennale di Atene, intitolata Omonoia, che avrà un format del tutto sperimentale.

“Durerà due anni, saldando insieme la quinta e la sesta edizione della Biennale, e si aggancerà così all’inizio di documenta. Soprattutto, come mai era successo, cercheremo di attivare un processo di produzione di qualcosa di concreto e tangibile, che resterà alla città. Le Biennali di solito seguono il modello dei grandi eventi, ma i greci ormai sono a pezzi e portare qualche serata di distrazione oggi non ha senso. Invece vogliamo avviare un processo di produzione artistica, che sfoci in qualcosa che avrà consistenza e durata e possa magari portare un po’ di ottimismo. Non so poi dire quanto l’arte sia davvero in grado di proporre rimedi contro la crisi. E’ un impatto incerto e tutto da dimostrare. Quello che noi possiamo fare è di restare flessibili al massimo, per accogliere le novità sociali”.

Woozy vuole ora superare la street art e cominciare a lavorare con altre tecniche e in ambienti nuovi. I suoi prossimi progetti avranno luogo su alcune isole greche. “Ma le soluzioni alla crisi devono venire dalle persone, l’arte può essere un buon punto di partenza per pensare, e noi dei validi messaggeri, ma tocca ai cittadini reagire”. Eleni concorda: “noi possiamo produrre le atmosfere dentro le quali si produrrà il cambiamento, ma la trasformazione deve giungere dalle persone”. Da settembre, assieme ad alcuni colleghi dell’Embros, espanderà i progetti artistici intorno a Pedion tou Areos, il parco dove si radunano migranti, senza tetto e una comunità omosessuale.

“Molti di loro si sono avvicinati con piacere all’arte, li ha aiutati a ristabilire dei legami e a ritrovare frammenti di senso. E questo è un percorso che hanno fatto in tanti, anche in altri contesti. Forse, in fondo, al di là della possibilità di trasformazione collettiva, l’arte serve sul piano individuale, ai tanti per i quali la crisi da economica si è fatta personale”.