Corbynomics

Il nuovo leader laburista, oltre le eccessive aspettative e paure

di Clara Capelli

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

Jeremy Corbyn si aggiudica le primarie del Partito Laburista nel Regno Unito e dalla reazioni sembra che una nuova presa del Palazzo d’Inverno sia imminente. Mettete in salvo i bambini, i rossi stanno tornando. “Una minaccia alla sicurezza del Paese, dell’economia e delle famiglie”, il commento del premier David Cameron su Twitter. Rincara la dose uno scandalizzato Economist, che per l’occasione abbandona i toni tipici del British understatement, definendo la vittoria di Corbyn “una grave sfortuna”.

Pare dunque che questo cambio di dirigenza sia un vero e proprio suicidio politico che segue la sonora sconfitta delle elezioni 2015, un allontanamento dalla “Terza Via” di Blair e del suo New Labour (quell’esperienza politica definita da Margareth Thatcher con raffinata ironia come il “suo più grande successo politico”) che segna il ritorno del Partito Laburista all’era dei dinosauri.

Limitando la riflessione alla questione economica interna (più controverse sono le questioni di politica estera e di genere, oltre che la posizioni di Corbyn sull’Unione Europea), l’analisi teorica sembra raccontare un’altra storia. Una storia, per altro, che meriterebbe maggiore riflessione e più adeguata diffusione alla luce dei problemi socio-economici che la crisi ha fatto riemergere da sotto il tappeto.

“La creazione di ricchezza è una cosa positiva: tutti vogliamo maggiore prosperità”. Questo è l’incipit del programma di Corbyn . Si rassicurano gli elettori che l’obiettivo del Partito Laburista non è rendere tutti più poveri: tranquilli britannici, se ci votate non finirete a nutrirvi di arbusti di brughiera.

“Se credete al mito dei Conservatori, la creazione di ricchezza risulta unicamente dai capitali privati, imprenditori o milionari che portano i loro investimenti sulle coste britanniche”. In questa frase si può ritrovare molto del pensiero di Corbyn e dei suoi collaboratori: tra una grigia dittatura socialista e una proposta critica e alternativa rispetto al paradigma economico dominante degli ultimi 35 anni c’è una significativa differenza. Riconoscerla, specialmente alla luce dei tanti fallimenti che il pensiero economico unico ha causato, è quanto mai doveroso.

La ricchezza la fa il settore privato. Perché il settore privato è mosso dal sacro fuoco del profitto, quindi è efficiente. E allora i capitali privati non vanno tassati, se no mica si investe. I lavoratori si diano da fare, accettino contenimenti salariali così gli investitori abbattono i costi e sono competitivi e portano crescita. La finanza sia libera di agire, lo Stato si limiti a tenere accogliente e pulita la casa per gli investitori privati. E alla fine arriva la crisi e qualche domanda diventa necessario porsela.

Si inizia a capire che forse la finanza va regolata e contenuta, perché la ricchezza dei magnati della finanza alla Gordon Gekko o Wolf of Wall Street accresce l’instabilità senza distribuire benefici su larga scala, bensì concentrandola nelle mani solo a un piccolo gruppo di eletti. Forse la disuguaglianza non è cosa buona, né per la convivenza sociale, né per le prospettive di crescita. Forse troppa flessibilità non genera frizzante dinamismo, ma precarietà, con la contrazione dei salari inversamente proporzionale all’aumento delle ore di lavoro. Forse. Dal Fondo Monetario all’OCSE, dalla Banca Mondiale a tanti economisti di grido che su questi temi ci hanno costruito una carriera, molto timidamente si inizia a riconoscere che forse tutta questa sfavillante crescita del settore privato è piena di zone d’ombra.

Tra l’ammettere che il privato e la finanza non sono buoni in sé e indicare una linea di politica economica che provi a realizzare la promessa di uno sviluppo più equo e dignitoso c’è un’altra importante differenza. È da qui che partono Corbyn e i suoi, riprendo alcuni punti del programma di Ed Milliband per le elezioni 2015 e per certi versi andando anche oltre.

Per prima cosa, una presa di posizione contro l’austerità, il tema chiave della crisi europea, anche fuori dai confini dell’eurozona. Dal 2010 Cameron con il Ministro delle Finanze George Osborne hanno fatto della disciplina fiscale la loro priorità (come se negli anni precedenti si fosse speso in maniera avventata), con consistenti tagli alla spesa pubblica accompagnati però da riduzioni fiscali per multinazionali e britannici molto molto abbienti. Appunto perché, se è il capitale privato a essere il virtuoso motore dell’economia, questo deve essere incoraggiato con incentivi fiscali. I meno fortunati verranno compensati dalla crescita che verrà.

Sorvolando sui recenti dibattiti circa gli effetti benefici di queste politiche (trovate un’interessante raccolta qui), non ci vuole molto per capire che l’economia inglese non se la passa benissimo: fuori dal mondo dorato della City di Londra, sono diffusi gli scenari da This is England, o da film di Ken Loach. Un settore industriale e produttivo sbriciolato, scomparso. D’altronde non rende: il capitale privato mica è stupido, non ci mette nemmeno una sterlina, fa il suo mestiere e va solo dove c’è già una condizione profittevole, non la crea dal nulla. Un universo di disoccupati e lavoratori malpagati, spesso figli di complesse storie di emarginazione, che da oltre trent’anni vedono il loro potere d’acquisto contrarsi. Le pellicole citate sono troppo di sinistra, troppo corbyniane? Pensate allora a Full Monty, il concetto non cambia: rimangono in mutande lo stesso, ma col sorriso.

In secondo luogo, un ripensamento del ruolo dello Stato nell’economia. Il privato, da sé, benessere a tutti non lo porta. Non c’è nessuna legge naturale che assicuri ciò, ma di fanatismi religiosi è pieno il mondo. Allora qualcuno dall’alto deve regolare, temperare e redistribuire. Tutte quelle cose che ai sostenitori della Thatcher, di Reagan e via elencano non andavano proprio giù. Visto che tutta questa libertà non ha realizzato le sue promesse, il progetto di questo “New Old Labour” prevede una serie di misure che da una parte cercano di promuovere un certo livello di redistribuzione dei redditi (stretta sulla tassazione per le fasce di reddito e ricchezza più elevate, aumento del salario minimo a 10 sterline l’ora), dall’altro intendono intervenire sulla struttura produttiva del Paese, dominato dal settore finanziario dopo decenni di deindustrializzazione nel nome dell’efficienza.

Corbyn parla di strategie industriali (una cosa un po’ diversa rispetto alla pianificazione socialista) e della possibilità di una banca di investimento nazionale per riqualificare un tessuto infrastrutturale obsoleto, a cominciare dalla qualità delle linee ferroviarie. British Rail è stata privatizzata tra il 1994 e il 1997, con risultati non proprio soddisfacenti come spiega nel dettaglio un rapporto del 2011, specialmente alla luce delle elevate tariffe praticate (per chi invece vuole il bigino, basta qualche spezzone di Paul, Mick e gli altri, di nuovo Ken Loach proprio sulla privatizzazione di British Railway). In ogni caso, sembra che a dispetto delle paure di molti non ci sia il rischio di espropri proletari, i britannici possono dormire sonni tranquilli.

Più complessa è la questione di come queste misure dovrebbero essere finanziate. Perché nonostante l’austerità sia un totem da abbattere, l’indebitamento fa venire mal di testa a tutti, anche al Regno Unito che ha mantenuto la sua sovranità monetaria non adottando l’euro.

Corbyn ritiene che una più elevata pressione fiscale sui ricchi potrebbe portare alle casse dello Stato le risorse necessarie a rilanciare la crescita, un argomento comune a Syriza, quando Tsipras e Varoufakis affermavano che la lotta all’evasione fiscale avrebbe permesso di recuperare soldi a sufficienza (cosa già sentita anche in Italia per altro). Un’altra opzione che è stata ampiamente ripresa dai media è quella del People’s Quantitative Easing, idea interessante benché solo abbozzata nel programma di Corbyn; semplificando, si tratta di una misura monetaria espansiva per stampare moneta al fine di finanziare direttamente opere infrastrutturali e non per acquistare attività finanziarie come di solito avviene.

“Abbiamo una società profondamente sbilanciata e un’economia altrettanto profondamente sbilanciata”, conclude il programma di Corbyn. Se il Partito Laburista avrà la capacità di convincere gli elettori britannici e affrontare queste storture socioeconomiche è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta. Ma prima di gridare al ritorno dei rossi (e comunque ogni marxista serio riderebbe di fronte a questi giudizi), sarebbe opportuno interrogarsi su che cosa ha portato il pensiero economico degli ultimi 35 anni, a che tipo di crescita e quali prospettive per il futuro.

Anziché rincorrere la Thatcher sul piano della politica economica (ecco il suo successo, essere la pietra di paragone rispetto alla quale Blair si è definito), varrebbe forse la pena scegliere altre vie, magari già note ma da percorrere in modo diverso. D’altronde, “ribilanciare” una società e un’economia non sembra proprio un obiettivo così radicale e scellerato. O invece sì.