di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Oggi, domenica 4 ottobre, regna una calma surreale nelle strade di Gerusalemme. La domenica è un giorno lavorativo per tutti, e al silenzio mattutino non siamo abituati.
E’ una calma inquieta, forzata, come chi si chiude in un ostinato e imposto sciopero della voce per incutere ancora più paura a chi è in ascolto. E’ la calma di un bunker a cielo aperto. E’ una calma apparente, di vetrina, per i turisti e i residenti del lato ovest, che possono passeggiare tranquilli per il centro commerciale del Mamilla, o per le vie della città vecchia, senza notare nulla di anormale, se ormai possiamo considerare normale lo schieramento ad ogni angolo di veicoli della polizia di frontiera e di poliziotti, soldati, e di civili con il solito mitra appeso alla spalla.
Gli ultimi giorni sono stati carichi. Inquieti. Silenziosi, come venerdì, o rumorosi come sabato, ma senza dubbio pesanti. Si avvertiva dal rumore degli elicotteri, ormai costantemente nel cielo di Gerusalemme. Un suono che, come quello dei droni che sorvolano Gaza, diventa orrendamente familiare, e fastidioso.
La notizia dell’attentato di ieri sera mi arriva appena metto piede al ristorante: “Sei riuscita ad entrare nella città vecchia? Da che parte sei entrata?” Ricostruiamo gli eventi, gli orari, confrontiamo i messaggi della sicurezza, i tweets dei giornalisti, meno male che il 3G in città vecchia prende abbastanza bene, siamo vicino alle mura esterne, facciamo il primo giro di telefonate a chi deve ancora arrivare. “A Jaffa Gate era tutto tranquillo”, dico, solo questo elicottero che non usciva dalle orecchie. Di sabato sera, sì, mi è sembrato strano, mi ricordo di averci pensato.
L. scrive che è in arrivo, e ci avvisa di non passare da Damascus Gate, perché, dopo il duplice omicidio – anzi triplice, poiché l’attentatore palestinese è stato ucciso sul luogo – c’è un assembramento di persone, e tanti soldati, e non sembra affatto sicuro. Appena riesce a districarsi, dice, ci raggiungerà.
Per un’ora e mezza non saremo in grado di rintracciare L. Il suo telefono è spento, oppure squilla a vuoto. Rifacciamo il giro delle telefonate, iniziamo a ragionare su cosa potremmo fare di intelligente, di certo non metterci a cercare qualcuno nelle strade del quartiere arabo, mentre nel ristorante comincia la musica e gli altri clienti, tra uno spiedino e una kunefah, si mettono a ballare. Almeno la serata è allegra.
Dall’altra parte delle mura della città vecchia si stanno radunando, come leggeremo sui tweets e nei messaggi di advisory, e poi sui siti di news israeliani, numerosi militanti israeliani di estrema destra, diretti a Damascus Gate, nel quartiere musulmano. Ci guardiamo tutti negli occhi ed elaboriamo lo stesso pensiero – proprio come un anno fa: ci sarà la caccia al palestinese.
Nella stessa giornata era stato ferito gravemente un bambino palestinese in West Bank, e solo il giorno prima una coppia israeliana residente in West Bank era stata uccisa in macchina, nei pressi di Nablus. Nella serata di sabato, si conterà un altro morto, oltre all’attentatore della città vecchia, tra i palestinesi: un altro ragazzo, ucciso sul colpo dalla polizia. Si discute sul web se, come ha annunciato la polizia, stava per effettuare un altro attentato, o se invece non stesse rappresentando alcuna minaccia al momento degli spari.
Gli attentatori palestinesi di questi ultimi anni sono stati soprannominati “lupi solitari”, imprevedibili. Ingiustificabili. Bisogna essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Anche se ormai questo è diventato un posto talmente sbagliato che sempre più persone si rendono conto che di non avere nulla più da perdere, e di non aver nulla da rendere ai propri politici, ormai considerati alla stregua degli occupanti, e si trasformano in lupi solitari. Che vengono poi costantemente rivendicati dai vari gruppi, perché a qualcuno la violenza fa sempre comodo.
Gli episodi di violenza si contano ben oltre le dita delle mani in queste ultime settimane. Potremmo dire che la situazione è al collasso, che sta per scoppiare, che è invivibile, che è ora di fare qualcosa. Ma putroppo questa è la quotidianità. E sì, è decisamente ora di fare qualcosa.
Non è difficile mettere tutti i pezzi in fila, e capire che episodi più o meno isolati, più o meno pianificati, non sono né le avvisaglie di una terza intifada, come ormai reclamano i media da anni all’ennesimo episodio di violenza – tanto che ci si chiede se forse non dovremmo ormai passare alla quarta – né fatti avulsi dalla realtà.
I fatti, e con fatti intendiamo anche le sfilate di estremisti di destra al coro di “Death to Arabs” ieri sera per Gerusalemme, gli arresti di massa avvenuti nella notte (più di 100 arresti, più di 77 feriti, secondo Ha’aretz, quotidiano israeliano), le mini-intifade, più semplicemente sassaiole, nelle strade dei quartieri più borderline di Gerusalemme Est, ovvero Issawiya, Silwan, non avvengono dal nulla, né devono essere interpretate come legittime “vendette”. Qui, in questa terra, di legittimo non c’è proprio nulla, se non il diritto ad avere tutti gli stessi diritti. E quello per ora non c’è.
Facciamo un passo indietro, per capire perché vivere in Palestina, nelle tre aree di West Bank, Gerusalemme Est e Gaza, equivale a vivere in tre differenti pentole a pressione.
A ventun anni dagli accordi di Oslo, nati e subito uccisi con la morte di Rabin, Abu Mazen proprio qualche giorno fa, di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ne annunciava il suo disinfrancamento. Tacciato, per l’ennesima volta, di aver agito da sub-contractor dell’occupazione israeliana, grazie agli accordi di cooperazione sulla sicurezza che autorizzano l’IDF ad entrare nelle aree A – e quindi a continuare le loro operazioni notturne di arresti, identificazioni, rastrellamenti, Abu Mazen ha alzato le mani.
E il governo israeliano, che da ieri ha messo via la minaccia iraniana, impugnata da anni in tutti i tavoli diplomatici, per concentrare l’attenzione della popolazione su quella al momento più spendibile, ovvero il terrorismo interno, non ha aspettato un attimo ad alzare il pugno di ferro. Perché la soluzione ad uno stato unico, come scrive Gideon Levy, esiste già, ed è esattamente questa.
Lo abbiamo scritto già su queste pagine, la vita quotidiana di un palestinese medio è un inferno. In West Bank, per via del sistema di closures, dei coloni – e del loro sistema di protezione, delle limitazioni al movimento, all’economia, alla vita. A Gaza, perché si è prigionieri a casa propria, senza acqua, elettricità, benzina, tenuti d’occhio h24 da telecamere e droni. A Gerusalemme, perché si è ospiti sgraditi, si passa la vita a cercare di non perdere il permesso di residenza, e la propria metà di città non riceve servizi, permessi edilizi, ma è perennemente sorvegliata dai soldati, puntata dai coloni, e a volte anche innaffiata di skunk foam.
Le ultime settimane sono state particolarmente intense. Il combinarsi di festività ebraiche e musulmane ha fatto sì che saltasse il tappo ad una delle questioni più scottanti di Gerusalemme: il contenzioso sulla Spianata delle Moschee. Controllata giuridicamente dalla Giordania, ma pattugliata dall’esercito israeliano – dentro e fuori – è il luogo caldo per eccellenza della città tre volte santa.
Il muro orientale del recinto è infatti il Muro del Pianto, principale luogo di culto ebraico, mentre la Spianata accessibile per i musulmani da alcuni ingressi, a loro riservati – per i turisti c’è un ingresso apposito, è il terzo luogo sacro per l’Islam, e, come tutte le moschee, non è solo un centro di preghiera ma un luogo di aggregazione, con giardini e alberi, e famiglie che si portano bambini, teli e approntano picnic. In città vecchia, forse uno dei pochi rimasti ad uso esclusivo dei musulmani.
La preghiera del venerdì è un rituale cui musulmani di Israele e Palestina – quelli che hanno il permesso – non si sottraggono. E’ anche un momento di tensione. Spesso l’ingresso alla preghiera è proibito agli uomini sotto i 50 anni, e altre categorie varie. Quasi ogni venerdì, schiere di tappetini sono stese nelle vie adiacenti la città vecchia, e i palestinesi a cui non è permesso entrare si mettono a pregare lì, sorvegliati a vista dai soldati. Quasi ogni venerdì, la tensione esplode in città vecchia. È il venerdì che ci aspettiamo gli elicotteri, più polizia per le strade, e le tensioni che derivano dal coincidere della giornata santa per i musulmani con l’inizio dello shabbat ebraico, e dal condividere, in un clima politico come questo, le stesse strade.
Agli ebrei è escluso l’accesso alla Spianata delle Moschee. Per evidenti motivi di sicurezza – che, in un mondo migliore e di coesistenza, non avrebbero ragione di essere. L’accordo sui luoghi sacri della città vecchia ha l’intento di rispecchiare i preganti di tutte le fedi e i loro rispettivi luoghi sacri. Per accedere alla piazza del Muro del Pianto, per esempio, bisogna passare attraverso un metal detector.
Nonostante questo, le feste ebraiche sono momenti di enorme tensione, poiché precedenza assoluta viene data ai preganti: accesso esclusivo alla Sinagoga di Hebron – che dal 1995 è parte della Moschea di Hebron, e conseguente chiusura dell’accesso musulmano; chiusura dei checkpoint in West Bank – e spesso chiusura degli accessi a Gerusalemme Est, limitazioni all’ingresso della Spianata delle Moschee, e, come accaduto nelle festività recenti, libero accesso ai luoghi sacri dell’Islam da parte di religiosi ebraici. Che questo possa essere considerato quantomeno improprio, se non una provocazione, crediamo possa essere compreso.
Non è infatti un segreto che gruppi ultrareligiosi pianifichino da anni di prendere il controllo della Spianata e far sorgere così il Terzo Tempio. Né che la municipalità di Gerusalemme stia scavando sotto quell’area alla ricerca di prove archeologiche, mettendo a rischio l’infrastruttura stessa, cioè la stabilità, della Spianata. Ma, piani messianici o urbanistici a parte, la verità è che l’accesso alla Spianata, e il suo conseguente uso, è l’ennesima arma a disposizione di chi è dal lato del grilletto, in questo conflitto multidimensionale. E che la copertura fornita dagli apparati statali completa il quadro di protezione, e impunità. Gli ultrareligiosi che passeggiano sulla Spianata sono infatti sempre scortati dai soldati. La provocazione è servita.
Si dice che la seconda Intifada scoppiò con la passeggiata di Ariel Sharon sulla Spianata, nel 2000. Di sicuro tale evento fu la punta dell’iceberg. Ma a causare la seconda sollevazione popolare fu l’ennesimo fallimento diplomatico, l’ennesima perdita di speranza e fiducia non solo nel proprio futuro ma nella stessa classe dirigente che cinque anni prima sbandierava gli Accordi di Oslo come un successo e cinque anni dopo era pronta a “svendere” ulteriormente la Palestina a Camp David. Se la prima Intifada era un movimento di sollevazione popolare, spontaneo – poi certo, cavalcato da Hamas, di reazione verso l’esterno, la seconda è stata una guerra civile, principalmente interna.
Che Sharon, grazie al supporto morale internazionale post-2001 contro il non meglio specificato “terrorismo islamico”, non ha esitato a schiacciare con una forza militare ed una repressione mai viste prima. Intifada che poi è stata cavalcata da tutte le forze militari interne palestinesi, frustrate e pronte a dire la loro nei confronti della “doppia” occupazione. L’esito è stato storico: la repressione israeliana, la fine dell’era Arafat, la poca credibilità della leadership palestinese post-Accordi di Oslo hanno reso possibile l’ascesa di Hamas nel 2006, come semplice “alternativa” alla minestra riscaldata, prima ancora che fosse una scelta politica. Dal 2006, la Palestina è entrata in un circolo ancora peggiore: l’assedio di Gaza e le tre guerre nella Striscia hanno ridotto allo stremo due milioni di persone.
La classe politica palestinese, di certo non con dispiacere da parte del governo dall’altro lato del muro, non ha prodotto alcun progresso dal punto di vista del nation-building, se non ulteriori divisioni e lotte reciproche. Dall’altra parte della terra santa, i coloni, grazie ad Oslo, prosperano, e la vita del palestinese medio è scandita dai permessi, dalla discriminazione, giuridica prima di tutto. La legge non è uguale per tutti in terra santa.
“Non posso venire domani”, mi dice la signora delle pulizie, che viene da Ramallah, “perché il permesso per Gerusalemme mi scade stasera e non so quanto tempo ci metterò per ottenerne un altro”. Inoltre, ha timore di andare a lavorare da un’altra sua cliente abituale, perché abita più ad ovest “e oggi ho paura ad andare con l’hijab a Zion Square”, una piazza centrale di Gerusalemme Ovest, a volte – come sabato sera – luogo di ritrovo di manifestazioni di attivisti israeliani. Questa è la follia di oggi, la stessa follia che mi previene dal chiamare il mio fidato tassista palestinese, per paura di esporlo a situazioni pericolose a Gerusalemme.
Questa non è la Terza Intifada, non ci sono leadership palestinesi al momento in grado – e capacità politiche, militari – di poterne chiamare una, e la brutalità delle repressioni israeliane, della seconda Intifada ma anche delle tre guerre di Gaza, ovviamente è un deterrente incontestabile.
Questa è l’esplosione di una pentola a pressione chiusa per troppo tempo, che è stata sempre davanti ai nostri occhi.