di Marcello Sacco, da Lisbona
C’è un particolare tipo di tourada, di corrida tauromachica senza torero, piuttosto diffuso nel Nord del Portogallo e, da quel che mi risulta, inesistente in Spagna. Si mettono due tori, anzi, più frequentemente due buoi di una certa età, in un’arena improvvisata, i buoi si guardano in cagnesco, qualcuno li aizza, quelli si incornano per un po’, poi uno dei due manda al diavolo l’altro e si allontana. Tecnicamente questo sarebbe il bue che perde.
Nell’agone politico portoghese stava accadendo qualcosa di simile: piazze strapiene nel 2012 contro il governo di Pedro Passos Coelho e della troika, poi sempre meno gente in piazza e, nei sondaggi pre-elettorali degli ultimi mesi, un pareggio tecnico tra coalizione di governo e oppositori socialisti.
Un pareggio di per sé inatteso che, nelle ultime settimane, diventava addirittura netto vantaggio del governo. Il bue dell’opposizione sociale e parlamentare si stava lentamente ritirando? Lo spoglio finale delle elezioni di domenica scorsa ha confermato questo vantaggio.
La coalizione Portugal à Frente (PàF) vince con il 38%, segue il Ps con il 32%. Ma a volte ritornano, i buoi. Perché se da una parte l’astensione, il più chiaro segno di stanchezza dell’elettorato, continua a salire (43%), dall’altra non si può fingere di ignorare l’evidente emorragia di voti per tutti i principali partiti che hanno governato in questi anni, mentre il dissenso si sposta a sinistra, dove il Bloco de Esquerda (10%) raddoppia il magro risultato del 2011 e, come nel 2009, sorpassa i comunisti, i quali tuttavia, fermandosi all’8%, confermano il loro granitico zoccolo duro, soprattutto al Sud. A guardarlo bene, il Parlamento che emerge da queste elezioni è molto simile a quello del fatidico 2009 (che verrà sciolto nel 2011 e lascerà entrare la troika), con l’unico “dettaglio” di un centrodestra in testa al posto dei socialisti.
Il dissenso insomma in Portogallo non si è ritirato né a vita privata, né si è rifugiato nell’altissima emigrazione di questi quattro anni. Si è ancora una volta disseminato a sinistra, dove le vecchie ferite di quel “processo rivoluzionario” dell’estate di 40 anni fa non si sono mai rimarginate. Qui è risaputo che i comunisti, irremovibili in Parlamento, se c’è da fare alleanze nelle amministrazioni comunali preferiscono farle con il centrodestra (come avviene attualmente a Loures, popoloso municipio “rosso” dell’hinterland di Lisbona) piuttosto che con i socialisti.
Il Bloco de Esquerda era nato anche per superare questo genere di impasse da divorzio litigioso e ha subito a sua volta scissioni recenti in nome del dialogo con il PS. Però non c’è neanche bisogno di rivoltare il baule del robivecchi per trovare argomenti che separino oggi la sinistra cosiddetta moderata da quella cosiddetta radicale. La rinegoziazione del debito, il rifiuto del patto di bilancio europeo (fiscal compact) e, in certi casi, l’intenzione dichiarata di abbandonare l’Euro e tornare allo scudo sono punti di divergenza al momento insanabile.
Conseguenza di tutto ciò è un Parlamento di sinistra (almeno nominalmente) con una maggioranza relativa di destra. I governi minoritari non sono una novità nella politica portoghese, dove l’abile gioco del trasformismo è una vecchia pratica parlamentare. Ma l’esempio dell’ultimo governo Sócrates, finito nel 2011 sotto il fuoco congiunto della destra e della sinistra, consiglierebbe soluzioni più stabili.
Il presidente della Repubblica, Aníbal Cavaco Silva, si è rivelato sfingeo e poco avvezzo a esperimenti azzardati. Da tempo comunque è fan dichiarato di un grande, grandissimo centro che coinvolga i socialisti nelle scelte di governo, mentre lo stesso Passos Coelho, nel discorso della notte scorsa, ha teso la mano a un accordo con i socialisti. Ma il candidato premier António Costa, con la campagna elettorale che entrava nel vivo della polemica, aveva già dichiarato che non avrebbe fatto passare nessuna manovra economica di un governo minoritario di destra.
Ora i socialisti sono a un bivio e qualcuno già chiede la testa di Costa che, ricordiamolo, era arrivato alla leadershp del suo partito dopo che il Ps aveva vinto di misura le Europee dell’anno scorso, proprio perché vincere per un pelo non poteva bastare più. Hanno perso. E la guerra interna, che in fondo è solo la variante portoghese della schizofrenia socialista europea, potrebbe riesplodere e portare a una più grave e definitiva spaccatura per il partito, con una sinistra “alla Corbyn” (come l’ha definita qualche analista) e una destra destinata ad appiattirsi e scomparire nella compagine di governo. Elettori, partner europei e mercati internazionali osservano e fanno il tifo ciascuno per il proprio bue.
Standard and Poor’s, che in piena campagna elettorale ha equamente e serenamente innalzato il rating del Portogallo, portandolo a un passo dall’uscita dalla zona spazzatura, ha già fatto sapere che qualunque sia il risultato delle elezioni, questa politica deve continuare. A molti converrebbe che per una volta i buoi nell’arena si baciassero.