Vajont sulla pelle

Nel 1963 una tragedia che lascia ancora senza parole, chiedendole a chi non c’era

di Marta Clinco

La famiglia era formata dai genitori, da cinque figli e dalla nonna. Sono rimasti in quattro fratelli: Micaela, Matelda, Annalisa e Giancarlo. Annalisa è sana e salva, perché si trovava in collegio a Belluno. Matelda ha un piede frantumato e si trova all’ospedale di Codivilla, di Cortina.

Micaela e Giancarlo si trovano, invece, all’ospedale di Pieve di Cadore. “Ero a letto – racconta – quando la montagna è caduta, ho sentito il terremoto. Si sono spalancate porte e finestre e dopo un po’ è crollata la casa. L’acqua ha trasportato me e mio fratello fino al campo sportivo…”. “Poi?”, chiediamo, piano, per paura di farle male. “Poi non ho pensato più a niente”, risponde voltando altrove gli occhi troppo asciutti.

9 ottobre 1963. Alle 22:39 il forte boato inghiottiva la valle. 260 milioni di m³ di roccia si staccavano dal Monte Toc e precipitavano ad una velocita superiore ai 100 km/h nel sottostante bacino del Vajont, creato artificialmente grazie all’omonima diga.

L’onda tricuspide generata dalla frana travolse e distrusse i comuni di Erto e Casso. Rase poi al suolo Longarone, danneggiando gravemente i limitrofi Pirago, Maè, Villanova, Rivalta, Codissago e Castellavazzo. Anche diversi piccoli borghi della zona vennero travolti, coinvolta anche Belluno. La diga restò sostanzialmente intatta, benché priva della sommità. Ma cosa accadde?

Negligenza, occultazione di tutti quei rilevamenti che avvertivano della non idoneità dei versanti del bacino. È fragile il Toc – l’acqua non la tiene, il Toc.
Ma nulla. Quella notte, la densa distesa aveva coperto ogni cosa – abitazioni, interi paesi, le scuole e le chiese – facendo più di 2000 vittime. Molte ancora riposano nella valle silenziosa, ai piedi del grande Toc. Alcuni sono sopravvissuti, come Micaela Coletti, anni 12, di Longarone. Per quanto a una tragedia del genere si possa sopravvivere.

“Quella notte era come tutte le altre. Aspettavo che mio padre rincasasse dal lavoro, lavorava in diga. L’ho sentito entrare in casa e poi andare via di nuovo – cosa strana, non succedeva mai. Nemmeno cinque minuti più tardi, un forte tuono, il boato, e mia nonna che stava andando a dormire è entrata in camera dicendo che doveva chiudere le imposte, “Sta arrivando il temporale”. Proprio in quel momento è mancata la luce, il mio letto ha preso velocità, sentivo i capelli che allargarsi come quelli della Medusa, il viso che si espandeva e si restringeva – una sensazione che non si può descrivere. Poi un dolore grandissimo alla schiena, l’impossibilità di respirare”.
Micaela fa un volo di circa 400 metri in linea d’aria.

“Quando mi hanno trovato ero sotto terra, avevo solo una mano e un piede fuori. Ero sepolta viva. Mi hanno tirata fuori – ho sentito delle voci che dicevano che avevano raggiunto un’altra vecchia. Poi mi sono ritrovata sulle spalle di un vigile del fuoco. Continuava a cadere su quei massi bianchi, le macerie di Longarone, e io gli dicevo che volevo camminare – ero viva e volevo camminare. E lui mi diceva che non dovevo preoccuparmi, che avevo sofferto troppo, che mi avrebbe portato lui. Poi il vuoto, finché sono arrivata all’ospedale di Pieve di Cadore”.

Micaela, comunque, ce l’ha fatta. Dopo il lungo periodo trascorso in ospedale, viene portata da una zia che non conosce, a Belluno, 20 km da ciò che era rimasto di Longarone.
“Nessuno mi aveva detto nulla della tragedia, nessuno mi ha mai chiesto nulla, tanto che ho vissuto sei, lunghi anni nella convinzione che fosse tutto un sogno. Dei miei genitori, ricordo che si amavano come due fidanzatini. Dei miei fratelli, pensavo quello che tutte le bambine dodicenni pensano dei fratelli”.

Di tutta la famiglia – i genitori, la nonna e cinque fratelli – si salvano in tre. La figlia più grande, 17 anni, Micaela di 12, il piccolo di 7. Degli altri non verrà mai ritrovato nulla, fatta eccezione per il padre, riconosciuto grazie ai documenti che portava nella tasca della giacca.
Sì, Micaela quella notte ce l’ha fatta. Oggi è anche presidente del Comitato sopravvissuti del Vajont.

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“Il Comitato è nato per portare aiuto psicologico alle persone che hanno subito questa tragedia. Solo chi l’ha vissuta con loro sa cosa provano. Poi naturalmente per il diritto e il dovere di portare avanti la memoria non solo della tragedia, ma della Longarone com’era, e soprattutto delle persone che sono morte, alcune delle quali non sono state mai ritrovate”. Nell’agenda del Comitato, infatti, molti interventi nelle scuole, mostre, partecipazioni a convegni, contributi e collaborazioni per alcune tesi di laurea, visite nei luoghi della memoria. Micaela è orgogliosa, oltre che del lavoro del Comitato, di sé stessa: “Oltre ad essere nonna ormai, per mantenermi faccio le pulizie condominiali.

Nemmeno uno dei sindaci con cui collaboro attraverso le attività del Comitato mi ha proposto un lavoro. Eppure ho sei ernie sacrali, due vertebre spostate ed il collo messo peggio di tutto il resto – regalo dei 400 metri di volo e delle tante ore passate sotto terra”.

E in quella stessa valle, solo circa cinquant’anni dopo la frana, si vociferava poco tempo fa di nuovi progetti per il Vajont: “Volevano fare una centralina ai piedi della diga stessa, dimenticando che l’acqua attraversa la frana e le ossa delle cento persone morte quella notte e mai ritrovate. Tutto questo per far sì che gli abitanti della nuova Longarone avessero da pagare poco la corrente elettrica. Nulla di più indecente e volgare”.

Di quella che tutti i quotidiani locali chiamavano “nuova diga”, si era iniziato a parlare tra il 2010 e il 2011. In realtà la nuova diga era una nuova centrale, la “centralina” Ponte Campelli, da costruire questa volta più in basso – perché abbiamo imparato – dove c’è un salto d’acqua di 169,47 metri, 1667 litri al secondo, e solamente 2 gigawatt contro i 90 che avrebbe dovuto garantire il vecchio impianto – sì, lo stesso che aveva provocato la frana del Toc nel ’63, e seppellito i paesi in valle sotto più di 50 milioni di m³ di fango.

L’accordo di programma era stato firmato ormai quasi cinque anni fa dalla multiutility bellunese Bim Gsp, società pubblica partecipata da 67 comuni della provincia, e dalla privata En&En. Pare tuttavia che, più che il moto delle coscienze, a mettere al palo la nuova opera siano state le diverse velocità con cui viaggiavano nello specifico pubblico e privato. Niente di nuovo. Ma il Toc continua a smottare, anche più di cinquant’anni più tardi, e con lui i membri del Comitato sopravvissuti del Vajont, l’unico a opporsi di fatto alla costruzione del nuovo orrore sulla vecchia tragedia.

Molto si disse e si scrisse sul Vajont dopo quel 9 ottobre di 52 anni fa. È difficile comprendere cosa abbia significato e cosa significhi quella tragedia anche oggi, persino dalle parole dei sopravvissuti che quella notte hanno perso tutto. Tra quelli come noi, quelli con la penna, probabilmente nessuno come Dino Buzzati – che definire “come noi” è qui forse un oltraggio – seppe rendere il dramma di ciò che avvenne, con parole semplici, e dolorose: “Come ricostruire ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l’onda spaventosa, dal cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come…

Sì come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della diga, è precipitata a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati. E il tonfo nel lago il tremito della guerra, lo scrole dell’acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l’irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c’è nelle tombe?

Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”.

Sarebbe bene ricordare di quelle migliaia di creature umane e innocenti morte così, per un soffio d’aria e una coltre d’acqua e di fango, dopo un tuono, il boato, e poi sepolte nel silenzio. Perché la questione morale e la colpa continuano a tracimare da quella diga ancora così cupa e imponente, ad allagare le coscienze. Forse, purtroppo, non abbastanza.