di Francesco Chiodelli
Da ormai qualche anno, l’Italia non è più un paese mono-religioso. La constatazione non è da poco: questo fatto rappresenta infatti una cesura epocale rispetto alla storia del nostro paese.
Pochi dati sono sufficienti a corroborare questa affermazione. Secondo le stime ISTAT, gli stranieri regolarmente residenti in Italia nel 2013 erano circa 4,4 milioni, ossia il 7,4% della popolazione totale (a cui vanno aggiunti circa 500.000 stranieri irregolari).
Una parte significativa di questi migranti è portatrice non solo di culture e tradizioni diverse da quelle tipiche del nostro paese, ma anche di religioni diverse da quella cattolica maggioritaria. Di particolare rilevanza è la diffusione della religione islamica: secondo le ricerche di Caritas e Migrantes, oggi, in Italia, risiederebbero circa 1,6 milioni musulmani. Di conseguenza, l’islam è non solo la religione più diffusa tra gli immigrati, ma è anche la seconda religione più diffusa nel nostro paese – come, d’altronde, avviene anche nella maggior parte degli altri paesi europei.
E’ utile sottolineare che la maggior parte dei migranti musulmani in Italia non si trova nel nostro paese in modo transitorio, ma vi si è trasferita con l’idea di restarci per tutta la vita. La presenza islamica in Italia è dunque un fatto irreversibile.
Per di più la sua rilevanza è probabilmente destinata a crescere nei prossimi decenni, all’interno di un processo di crescita della presenza straniera in Italia: nel 2065, in Italia il 23% della popolazione residente potrebbe essere costituito da stranieri; tra costoro, i musulmani potrebbero essere quasi 5 milioni.
La presenza di un numero consistente di musulmani in Italia è già oggi incide profondamente sulla conformazione dello spazio delle nostre città. Ad esempio, determina la comparsa di luoghi caratterizzati da una funzione religiosa più o meno esplicita. Il caso più noto è quello delle moschee (non è tuttavia l’unico: si pensi ad esempio ai luoghi di sepoltura).
In questi anni, la prassi adottata in tema di moschee dalla maggior parte delle municipalità è stata quella di ostacolarne o impedirne la costruzione – ciò è avvenuto e avviene, è utile ricordarlo, nonostante in Italia i luoghi di culto di qualsiasi religione (dunque anche dell’islam) sono considerati beni funzionali alla realizzazione del diritto costituzionale a professare la propria fede religiosa; di conseguenza in base alla legge, la loro costruzione dovrebbe essere garantita e promossa dalle autorità pubbliche per rispondere ai bisogni della popolazione insediata.
La conseguenza di queste politiche restrittive è che oggi, in Italia, esiste un non più di una dozzina di moschee formali (per avere un termine di paragone, si tenga presente che in Francia le moschee formali sono circa 200). Ad esempio, in una città come Milano, in cui risiedono circa 80.000 musulmani, non esiste alcuna moschea formale.
Nemmeno l’occasione di Expo, con l’arrivo in città di decine di migliaia di visitatori di fede islamica è stata sufficiente a sbloccare la situazione (si consideri anche che il Ramadam è caduto in pieno Expo, dal 17 giugno al 16 luglio) : nonostante i diversi proclami dell’amministrazione comunale di Milano, nessuna moschea – nemmeno una temporanea – è stata realizzata.
Se si spoglia il discorso sulle moschee da tutto il proprio bagaglio ideologico e propagandistico, e tralasciando per un attimo anche questioni di ordine valoriale (e costituzionale), appare immediatamente evidente come questa politica di ostacolo all’edificazione di luoghi di culto islamici sia terribilmente miope, fosse anche da un punto di vista meramente pragmatico: se, come detto, la presenza islamica in Italia è irreversibile, è naturale che i milioni di musulmani che abitano (e abiteranno) nel nostro paese abbiamo luoghi di culto ad essi dedicati.
Si consideri anche che se oggi la maggior parte dei musulmani in Italia è rappresentata da stranieri (migranti da poco arrivati nel nostro paese), nei prossimi anni crescerà la quota di cittadini italiani di fede musulmana (costituita da giovani di seconda generazione e migranti che avranno acquisito la cittadinanza italiana). Da questo punto di vista, la discriminazione tra italiani di fede musulmana e italiani di fede cattolica sarà sempre meno difendibile: non si può pensare che queste centinania di migliaia di persone rinuncino per sempre a pregare collettivamente.
Tale miopia è dimostrata anche il fatto che, nonostante tali politiche restrittive contro la costruzione di moschee, a fronte di una manciata di moschee formali, esistono già oggi diverse centinaia di moschee informali in Italia (oggi sono probabilmente tra 800 e 1.000, una quindicina nella sola Milano).
In tutti questi anni la questione della presenza islamica in Italia è stata per lo più ignorata dal dibattito politico e pubblico nel nostro paese, come se si trattasse di un fenomeno passeggero, destinato in breve tempo a scomparire – o al limite, essa è stata declinata in relazione ai temi della sicurezza (che, come appare evidente, per quanto significativi, riguardano un’irrisoria minoranza dei musulmani residenti nel nostro paese).
E’ mancata completamente, invece, una riflessione approfondita su come avviare un processo di integrazione dei migranti in Italia – e, nello specifico, di quei migranti portatori di una specificità culturale e religiosa peculiare come i migranti musulmani.
La crescita della presenza straniera, e musulmana in particolare, la renderà probabilmente ineluttabile negli anni a venire, nonostante la riluttanza della classe politica ad affrontare la questione in modo serio.
Nell’attesa che tale riflessione venga avviata, potrebbe essere utile cominciare ad approcciare il tema dal punto di vista della sua declinazione spaziale e urbana. E’ proprio nelle città, infatti, che la presenza musulmana si esprime nelle sue forme più visibili – e talvolta anche problematiche e conflittuali; ed è proprio dalla risposta al bisogno impellente di certi spazi elementari a caratterizzazione religiosa nelle nostre aree urbane (ad esempio luoghi di culto, ma anche luoghi di sepoltura) che il processo di integrazione può essere avviato, non solo per rispondere a un basilare principio (costituzionale) di libertà religiosa, ma anche, più prosaicamente, per evitare che il perdurare delle attuali politiche restrittive contribuisca a generale forme di conflittualità violente e dagli esiti prevedibilmente nefasti.