di Barbara Capone, da Vienna
Fine settimana di elezioni in una Vienna immersa in un gelido autunno dai colori invernali.
La città non perde il suo aplomb. Gli ultimi giorni prima del voto trascorrono come tanti per questo angolo di mondo in cui ogni palazzo, ogni caffe, ogni strada parla di un sogno imperiale ormai lontano, dove il tempo sembra si sia fermato ed i fasti di un passato glorioso troneggiano raccontando storie di una grandezza andata, di un centro di un mondo ormai sopito.
Passeggiando per le strade si incontrano sparuti gruppi che invitano al voto. Qualche giacca rosa dei NEOS, giovanissimo partito neoliberale, una manifestazione di gruppi socialmente attivi che chiamano all’arresto del TTIP, il trattato Ue – Usa.
Lungo le vie dello shopping banchetti dei vari partiti distribuiscono qualche volantino e la Lugner City, centro commerciale di un ricco magnate Viennese, si fa sede sabato degli ultimi dibattiti politici. Ma nel complesso sono giorni come tanti.
Gli ultimi mesi sono stati insoliti per questa città che si è trovata sulle rotte di quella che è stata chiamata emergenza migratoria. Cinque anni di guerre solo ora arrivano agli occhi della gran parte dei cittadini delle democrazie bene del nord del mondo. Ed arrivano negli sguardi disperati e distrutti di chi ha dovuto decidere quanto del proprio trascorso potesse entrare in una valigia, lo ha chiuso e portato con sé, abbandonando un passato raso al suolo ed un presente fattosi sale.
E così i sogni di migliaia uomini raggiungono queste lande, seppur di passaggio. Terre dipinte come esempio di integrazione, dove però il mescolamento tra gruppi ed etnie diverse ha un sapore a me amaro.
Vienna, capitale dell’impero che fu, è una città dal gusto strano. Ospita grandi sacche di immigrazione, dalla Turchia, dai paesi dell’est. Ospita, ma credo il termine più adatto sia tollera.
Quartieri interi sorgono quali ghetti. E così, non appena si oltrepassa il Danubio e si va nella parte “out” della città, dischiudono le porte i quartieri turchi, lì dove puoi mangiare il miglior kebab, lì dove gli affitti costano meno e nessuno perderà mai la compostezza nello spiegare il perché apertamente, ma basta uno sguardo.
E così tollera l’immigrazione dall’Europa orentale, accettando che ogni mestiere considerato più basso venga svolto da persone dell’est, per lo più ungheresi, che lavorano nei cantieri senza una protezione di sorta, che si adattano a dormire estate ed inverno nei containers, che non devono essere legittimamente registrate come lavoratori, perché l’Ungheria è sufficientemente vicina da permettere ai datori di lavoro locali di intimare la pendolarità agli operai, e sufficientemente lontana perché non si senta necessaria una integrazione di sorta né tantomeno il rispetto di diritti sociali e umani.
Ed in questo contesto la città si è trovata, a due mesi dalle elezioni, nel mezzo di uno dei più intensi flussi migratori via terra che si sia visto negli ultimi anni. Migliaia di persone provenienti da paesi lontani ed in guerra hanno ogni giorno attraversato i confini arrivando dalla vicina Ungheria, e si sono ritrovate nelle stazioni centrali della capitale Austriaca. E qui si è assistito ad un fenomeno dal volto gianesco.
La popolazione civile si è svegliata, è stata toccata nel vivo. Armata di ciò che aveva in casa – vestiti, cibo, saponi – è corsa ai confini, alle stazioni, a dare una mano in ogni modo potesse.
Associazioni sono sorte in un battibaleno, ed ecco Irlandesi gestori di pub che, fatto appello all’orgoglio nazionale ed alla solidarietà d’oltremanica, hanno svuotato i propri magazzini e li hanno trasformati in depositi nei quali raccogliere aiuti da poi distribuire.
Gruppi spontanei si sono dati appuntamenti al Prater, in uno dei parchi centrali della città, e con le macchine sono partiti per andare al confine a caricare nei propri autoveicoli quante più persone potessero delle migliaia che stavano marciando lungo i cigli dell’autostrada che congiunge l’Ungheria all’Austria, noncuranti delle multe da migliaia di euro che erano state minacciate come ad intimare un non intervento.
Un risveglio incredibile e subitaneo, un moto di popolo, una mobilitazione che dalle autorità locali, in campagna elettorale, è stata in qualche modo tollerata. Non appoggiata, non osteggiata. Tollerata. Una crisi dalle potenziali proporzioni imperscrutabili lasciata in autogestione alla società civile ed a poche associazioni radicate sul territorio quali la Caritas. Ed in questa birifrangenza, inizia a crearsi una spaccatura.
Il sentimento sociale, il bisogno di intervenire che forte aveva spinto i primi gruppi ad agire, inizia a subire la commistione con un buonismo che porta persone ad andare a dare una mano per poter poi tornare a casa ed appendere alle pareti dei propri salotti l’autoscatto sorridente fatto in una buia stazione accanto ad un uomo, una donna, un bambino distrutti da migliaia di chilometri percorsi in condizioni inumane, ai quali si è portato un frutto o un maglione.
E così quel gesto giusto e sentito che ha mosso centinaia di animi, in taluni si trasforma in un’azione sterile con la quale lavarsi la coscienza per non aver alzato un dito, per non aver alzato la voce, per non essersi posti alcun interrogativo nel corso degli scorsi cinque lunghi anni.
Questa demarcazione di intenti ha pian piano iniziato a creare una frattura. I migranti si trasformano in un’entità terza, fastidiosa. Si vedono le prime reazioni sulle metropolitane, gli sguardi distolti, i vuoti che si creano attorno a loro. Uomini, donne, bambini diventano entità aliene. Sopportate non si sa bene per quanto ancora.
Nel silenzio dell’amministrazione locale, che continua a tollerare senza dire o senza agire apertamente, i muri della città iniziano timidamente a coprirsi di manifesti elettorali. Il sorriso di Heinz-Christian Strache, leader del partito ultranazionalista FPÖ diventa compagno di viaggio lungo ogni strada, autostrada, via o viottola della città. L’FPÖ invoca una drammaticamente ironica “rivoluzione di ottobre”, i muri vengono rivestiti di “non vorrete mica che i vostri figli vadano a scuola con i loro figli”, e la società bene si interroga sul come fare ad evitare la contaminazione delle proprie future generazioni, cercando di iscrivere i propri pargoli in scuole private, carissime e quindi inaccessibili ai più.
Nel silenzio di un sindaco dalla faccia bonaria che compare qui e li, sempre più cartelloni dell’FPÖ si fanno strada cavalcando la paura di coloro che sono stati trasformati nel diverso, che da uomini trattati da pari a pari, sono stati declassati lungo la scala dell’empatia, trasformati in un loro che al più può essere qui di passaggio. Un loro a cui verrà data una coperta si, ma un loro che qui non può restare.
Ed è in questo clima che una città che dal 1945 è governata ininterrottamente dal partito socialista si ferma, nel timore di ritrovarsi ad un ultranazionalismo xenofobo che le proiezioni danno al 35%.
Le ore del voto scorrono lente.
Dalla mattina alle otto alla sera alle cinque le urne sono aperte e le strade sono percorse da un via vai insolito per una domenica Viennese. Nel mio distretto si vota in una “scuola del popolo”, una Volksschule che da questa mattina vede, di fonte al suo ingresso, un mormorante assembramento di persone formarsi, con piccoli nuclei che dibattono nervosamente.
Si respira un’aria tesa.
Vado a votare nel pomeriggio e mi ritrovo a fare la fila. Nella mia sezione sono la votante numero 412 e quasi tutto il registro degli aventi diritto al voto appare vidimato. C’è una bella affluenza.
Voto, esco e vado a prendere un caffe. Sono quasi le cinque, e nel bar la televisione accesa mostra gli ultimi dibattiti. I candidati dei Neos che su un palco di un rosa intenso smantellano muri di polistirolo inneggiando ad un rinnovamento, il sindaco uscente, ripreso nell’atto del voto, visibilmente nervoso, la candidata dei verdi che entra nel seggio.
Sono ore nervose e Vienna freme all’idea che l’FPÖ possa realmente diventare primo o secondo partito.
Iniziano le prime proiezioni. Sembrano sancire le intenzioni di voto; FPÖ tra il 33 ed il 36%, SPÖ tra il 34 ed il 37%.
Silenzio. Si aspetta ancora.
Si aprono le urne ed iniziano gli scrutini. E l’altissima affluenza al voto sembra pagare: l’ascesa dell’FPÖ sembra essere arginata. 31% contro un 39% del SPÖ che riesce a mantenere la supremazia. L’aria si fa meno tesa.
I gruppi che nel corso degli ultimi mesi si sono fatti portavoce di solidarietà ai migranti e creato spazi di raccolta ed intervento iniziano a tirare un sospiro di sollievo. Numeri timidamente confortanti vengono mostrati ed un coro di “Grazie Vienna!” risuona sulla rete.
Eppure guardando i numeri non riesco a sorridere; seppure consapevole ed alleggerita per lo scampato pericolo non riesco a non vedere come nella situazione geopolitica globale ed europea che stiamo vivendo, la xenofobia abbia portato ad un +5.2% nelle tasche di un partito ultranazionalista che dello spauracchio del diverso ha fatto campagna elettorale a spese di tutti i partiti della sinistra moderata.
Che in un paese come l’Austria nelle campagne e nelle zone di confine i partiti ultranazionalisti e xenofobi siano diventati maggioritari. è un segnale inquietante.
Ora, con l’Ungheria che chiude le frontiere ai flussi migratori di chi fugge da situazioni impossibili, ed ora che flusso migratorio intraeuropeo – del quale io stessa sono parte – va via via crescendo, questo segnale preoccupa come nuova realtà sociale della mia generazione.