Libia, l’accordo farsa

L’inviato Onu in Libia Bernardino Léon annuncia l’Accordo
per formare un nuovo governo senza che ci siano i presupposti per attuarlo. Ma se Tripoli piange, Bruxelles ride: l’Onu ha dato il via libera alla missione militare congiunta nel Mediterraneo

di Lorenzo Bagnoli

La Libia torna ad essere un Paese unico: dopo la Jamahirya (“la Rivoluzione Verde”) di Gheddafi, a unirla sarà l’Onu, che terrà a battesimo un nuovo Governo di unità nazionale. L’annuncio solenne lo declama Bernardino Léon, gran tessitore per mandato delle Nazioni Unite, il 9 ottobre. Tessitore sul quale, soprattutto da Washington, si sono sempre espressi molti dubbi. E infatti l’annuncio è una farsa: tenere insieme le fazioni libiche è un’impresa impossibile.

L’Accordo per il governo nazionale dovrà essere ratificato sia dalla Tripolitania, dove oggi primeggiano le milizie spalleggiate dai gruppi islamici (amici di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), sia dalla Cirenaica, la parte orientale del Paese, dove, a Beida e Tobruk, ha sede il Governo riconosciuto dall’occidente. In mezzo, città come Derna e Sirte, dove è forte la presenza dell’Isis. Un caos ingovernabile: a pochi giorni di distanza dall’annuncio di Léon, l’impianto diplomatico da lui costruito già scricchiola.

Il piano del commissario Onu prevede una complessa macchina statale bicamerale. A est, la Camera dei Deputati (House of Representatives, HoR) eletta a maggio 2014 diventerebbe il corpo legislativo dello Stato, accompagnato a ovest da un Consiglio di Stato, un’assemblea consultiva. Ma chi sarà la guida? Nessuno vuole mettersi in testa a questo mostro ingestibile: l’Onu ha già fatto una sua lista di candidati, ma finora non c’è unità. Il tempo stringe: il 20 ottobre scade il mandato della missione Onu in Libia.

Confidare nell’unità libica equivale credere all’esistenza di un Paese mitologico. Ma questo Paese mitologico è funzionale all’Unione europea e alle Nazioni Unite.

Poche ore dopo l’annuncio di Léon, infatti, al Palazzo di Vetro di New York il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato l’uso della forza per la missione Eunavfor Med, il cui centro operativo ha base al Comando centrale della capitaneria di Porto a Roma.

L’Alto Commissario agli Affari esteri della Commissione, Federica Mogherini, ha voluto ribattezzare la seconda fase di Eunavfor Med, cominciata in ottobre, “Sofia”: «Un nome che dà speranza», ha commentato. In giugno, nella prima fase, era solo un’operazione di intelligence, mentre ora con Sofia le navi militari dei Paesi partecipanti hanno mandato per «ingaggiare e sequestrare» le navi dei trafficanti. Come è ancora poco chiaro.

Il rischio è che Eunavfor Med sia una vera e propria operazione militare contro la Libia camuffata da missione anti-trafficanti.

Infatti, Eunavfor Med prevede una terza fase ancor più rischiosa che, per evitare fosse una dichiarazione di guerra contro la Libia, aveva bisogno di una risoluzione Onu per partire. Nella fase tre è possibile anche sparare sui barconi. Lo scopo è fermare i traffici di persone, si legge nelle bozza della missione approvata dalla European Union Military Committee (Eumc), rivelata in maggio da Wikileaks.

Il Comitato mostrava qualche riserva nella bozza di approvazione. La missione potrebbe mettere in pericolo, si legge, «la reputazione dell’Europa»: per »qualunque sbagliata interpretazione degli incarichi e degli obiettivi (della missione)» oppure per »l’impatto negativo della perdita di vite attribuita, giustamente o ingiustamente, per l’intervento o il non intervento della forza militare europea». Evidentemente i funzionari di Unione e Stati membri si sono fatti una ragione.

Il disegno che sta dietro questa serie di provvedimenti è uno solo: il Processo di Khartoum. Cominciato dall’Italia con il semestre di presidenza europea, il Processo di Khartoum è un tavolo di trattativa a lungo termine che mette a sedere rappresentanti europei e africani insieme ad agenzie internazionali che si occupano di rifugiati. Obiettivo non dichiarato ma palese: interrompere i flussi di migranti verso le coste nord del Mediterraneo. Il passato dice che è possibile: la Spagna cominciò il Processo di Rabat per fermare la rotta verso Canarie e Ceuta. Ci riuscì.

Come al solito, però, i tempi delle cancellerie europee non sono quelli dei migranti: chi scappa dalla guerra non parte più dalla Libia – come nel 2014 – ma dalla Turchia, diretto in Grecia.

Ciò nonostante, l’elefantiaca macchina diplomatica europea ha cominciato a muoversi e ora la Libia è nel mirino. Nel Paese, ci sono 2,5 milioni di persone, circa il 40% della popolazione, che vivono in uno stato di estrema necessità. A loro si aggiungono i migranti. Ma il piano dell’Europa è chiudere la porta d’ingresso e serrare i ranghi. Anche attraverso finti governi di unità nazionale.