le mosse già fatte da Cina, Usa e India potrebbero influenzare
i risultati del vertice Onu. Positivamente
di Gianluca Ruggieri
Nel dicembre 1997, Oliver Bierhoff siglò il successo dell’Udinese di Alberto Zaccheroni contro l’Inter di Gigi Simoni e di Ronaldo, portandosi a soli quattro punti dall’allora capolista. Dieci giorni prima, era stato firmato il protocollo di Kyoto, lo strumento che la comunità internazionale si è data per limitare le emissioni di gas a effetto serra.
L’effetto serra è un fenomeno naturale indotto dalla presenza di alcuni gas nell’atmosfera terrestre. È un fenomeno di per sé positivo, visto che senza effetto serra la temperatura media sulla terra sarebbe attorno ai -18°C. Ma l’attività dell’uomo nell’ultimo paio di secoli ha liberato in atmosfera quantità crescenti di gas come l’anidride carbonica e il metano. Questo rapido (se considerato in rapporto alla vita del nostro pianeta) aumento delle emissioni non è stato accompagnato da un altrettanto rapido aumento della capacità del nostro pianeta di assorbire questi gas.
Il risultato netto è quindi un aumento delle concentrazioni dei gas serra e delle temperature medie terrestri. Il tutto avviene a una velocità rapidissima e determina cambiamenti nel clima che sono evidenti.
Il Ministero della Difesa degli Stati Uniti d’America (non esattamente un covo di ambientalisti) scrive che gli effetti del cambiamento climatico stanno già avvenendo e la loro scala e intensità è destinata ad aumentare nel tempo. Per questo motivo, il Pentagono ritiene che il cambiamento climatico costituisca una minaccia urgente e crescente alla sicurezza nazionale («urgent and growing threat to our national security»).
Appare stridente osservare come questa minaccia urgente e crescente sia affrontata a livello globale con strumenti definiti nelle loro linee generali ormai quasi diciotto anni fa. Raccontatelo ai ragazzi nati nel 1997 che l’anno prossimo affronteranno l’esame di maturità.
Gli accordi attualmente in vigore sono inadeguati alla sfida. Tra i tanti limiti, segnaliamo ad esempio che il protocollo di Kyoto coinvolgeva solo i paesi considerati industrializzati e che diventava operativo solo dopo la ratifica nazionale. Ad esempio, sono esclusi dalla sua applicazione diretta gli Stati Uniti (che non lo hanno mai ratificato), il Canada (che prima lo ha ratificato, poi si è ritirato), la Cina, l’India, il Brasile e il Sudafrica (che all’epoca erano considerati paesi in via di sviluppo).
Per questi motivi è attesa con grandi aspettative la Conferenza delle Parti convocata a Parigi per la ventunesima volta. È almeno dall’edizione del 2009 che la comunità internazionale vede regolarmente deluse le aspettative: quando va bene si riescono a definire accordi non troppo vincolanti (come a Doha nel 2012), quando va male non ci si accorda su nulla (come a Copenhagen nel 2009). Perché questa volta dovrebbe andare in un altro modo?
Il ruolo decisivo nei negoziati di Parigi dovrebbe essere svolto proprio dalle due principali economie mondiali, responsabili assieme di oltre il 40 per cento delle emissioni globali.
Gli Usa sono tornati ad essere il principale produttore mondiale di petrolio e gas grazie alle tecniche estrattive che utilizzano il fracking. Ciononostante, anziché favorire il consumo di fonti fossili per la produzione di elettricità, Barack Obama negli ultimi mesi ha prima posto il veto alla realizzazione dell’oleodotto Keystone e poi ha pubblicato il Clean Power Act che penalizza gli impianti che utilizzano gas naturale. Del resto, grazie alla riduzione dei costi delle tecnologie, il solare risultava essere già economicamente competitivo anche senza incentivi.
Ma cosa succede sull’altra sponda del pacifico? Sono lontani i tempi in cui si raccontava che in Cina venisse costruita una centrale elettrica a carbone ogni tre giorni. La Cina, ormai da qualche anno, risulta essere il paese dove sono maggiori gli investimenti in energie rinnovabili. Pechino, inoltre, è il più grande produttore di energia elettrica da fonte eolica e idroelettrica e di energia termica da impianti solari e geotermici. Ma, nonostante questo enorme impegno concentrato nel settore energetico, le emissioni di gas serra in Cina continuano ad aumentare (anche se meno velocemente di quanto temuto in precedenza).
È quindi un segnale importante la volontà del governo cinese di definire un meccanismo di limitazione delle emissioni che riguarderà non solo il settore energetico, ma anche i principali settori industriali.
L’impegno è contenuto nel documento congiunto sottoscritto recentemente a Washington da Barack Obama e da Xi Jinping. Nello stesso documento, vengono delineate strategie comuni di Cina e Stati Uniti in vista dei negoziati di Parigi. Ma la lista di impegni è lunga e articolata: oltre a impegni puntuali nella riduzione delle emissioni, il documento prevede investimenti pari a 6 miliardi di dollari nel Green Climate Fund messo a disposizione dei paesi in via di sviluppo, cooperazione in programmi di ricerca dedicati a efficienza energetica, mobilità elettrica e riduzione dei consumi di acqua.
Ma perché sottoscrivere un accordo bilaterale con questi contenuti?
Probabilmente da parte cinese c’è la volontà di mostrare segnali di un’azione concreta in campo ambientale. L’inquinamento in Cina è da tempo la causa di focolai di protesta che preoccupano il regime. Anche se le emissioni di gas serra non necessariamente sono legate ai fenomeni di inquinamento locale, l’azione sui due fronti può essere facilmente coordinata. Legarsi a impegni simili del governo statunitense può ammorbidire i possibili impatti sull’economia cinese.
Da parte statunitense invece potrebbe esserci la volontà di Obama di mettere in sicurezza la politica ambientale nazionale in vista delle prossime presidenziali. Come ha osservato qualche commentatore, nel caso venga eletto un presidente repubblicano, come potrebbe pensare di non rispettare gli impegni presi con il governo cinese senza compromettere i rapporti bilaterali?
Provando a delineare in estrema sintesi processi estremamente complessi che inevitabilmente mostrano luci ed ombre, potremmo dire che i giganti delle emissioni da qualche tempo si sono messi in moto.
E i giganti, si sa, sono un po’ più lenti a muoversi, ma sono anche parecchio complicati da fermare. USA e Cina stavolta si sono mossi in anticipo rispetto alla conferenza di Parigi. Si sono legati a filo doppio tra di loro e inevitabilmente influenzeranno le scelte di tutti gli altri paesi. È recentissima la notizia che anche l’India ha delineato un suo programma di riduzione delle emissioni, per la prima volta in assoluto. Insomma, tante buone notizie. L’unico dubbio è che non sia troppo tardi o che comunque non sia sufficiente a evitare lo spettro dei due gradi di aumento delle temperature globali. Lo scopriremo solo vivendo.