della Palestina «è una nuova Intifada. E a guidarla
è una nuova generazione». Intervista a Lema Nazeeh,
attivista dei Comitati popolari di resistenza
di Cecilia Dalla Negra,
tratto da Osservatorio Iraq
Il suo telefono non smette di squillare, neanche durante l’ora in cui parliamo. «C’è un’atmosfera folle, caotica, la quotidianità è stata annullata. Siamo continuamente per strada, la mobilitazione è permanente. Continuano a chiedermi di andare a Beit Eil, si manifesta ancora».
Lema Nazeeh è una giovane attivista palestinese dei Comitati popolari di resistenza. Vive a Ramallah, che non è stata risparmiata da agitazioni, scontri, dimostrazioni.
Quando la raggiungiamo telefonicamente è domenica mattina, e quella da cui Lema ci parla è una Palestina che brucia.
Brucia di rabbia e indignazione, di reazione alla violenza e ai soprusi, di stanchezza per quelle violazioni ormai divenute tragica normalità, assuefazione ad un male sempre più brutale. Nonostante abbiano raggiunto livelli di aggressività mai registrati prima, nonostante i morti si moltiplichino da tempo, rimossi dalla narrazione mediatica.
«I coloni agiscono con una violenza inedita e nella totale impunità. L’esercito li protegge, la politica li invita ad utilizzare le armi (il riferimento è alle recenti dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano che ha invitato i coloni in possesso di armi ad usarle, ndr). Le strade non sono sicure in questi giorni, credimi, non lo sono. Nessuno è al sicuro. E anche scendere in piazza è più pericoloso di sempre», spiega Lema.
Sentirlo dire da chi da anni manifesta in prima linea ogni venerdì nei villaggi della resistenza popolare fa una certa impressione. E restituisce l’immagine di una mina esplosa perché da troppo tempo covava sotto la polvere di silenzio e indifferenza con cui era stata ricoperta.
Ma è una Palestina che brucia unita, come non accadeva da tempo.
Che vede coinvolte nella lotta dopo anni non solo le città della Cisgiordania, ma anche quelle palestinesi in Israele. Che vede muovere la rivolta dalle porte di Gerusalemme, attraversare Ramallah, Nablus e Jenin, arrivare fino ad Haifa e toccare Gaza, dove le prime bombe israeliane sono già cadute.
Così come continuano a cadere i giovani che si rivoltano.
È una terra che brucia mentre lancia un messaggio forte – la Palestina è una, e vuole libertà – e che vede in prima fila nelle manifestazioni una nuova generazione «che vuole scrivere la sua storia, ne ha abbastanza di partiti, leadership, negoziati e trattative. Che non sarà ancora bene organizzata, ma certamente non ha paura», racconta Lema.
E lo confermano i numeri: solo nelle prime due settimane di ottobre, in quella che è già stata ribattezzata «l’Intifada di Gerusalemme», i martiri palestinesi sono stati 30. Avevano tutti meno di 30 anni, la metà di loro non arrivava ai 18.
Quello che sta succedendo per le strade della Palestina, per Lema, non è il ciclico riproporsi di una rabbia che esplode quando la misura è colma, che tante volte in questi anni ha riempito le strade sterrate dei suoi villaggi. Come accadde durante l’ultima offensiva israeliana su Gaza nell’estate 2014, quando in tanti pensarono che la collera che stava trovando sfogo sarebbe deflagrata in una lotta di resistenza su vasta scala.
Questa volta, secondo Lema, ci sono elementi di differenza: «Nel 2014 le manifestazioni popolari furono una reazione al massacro che era in corso su Gaza. Oggi no. La scintilla è una reazione, ma sta proseguendo come azione. Un’azione di resistenza».
Se le domandi quale sia, questa scintilla, risponde senza esitazione. «Jerusalem. It’s always Jerusalem», ricordando quanto resti ferita aperta nel ventre di quella terra e del suo popolo. Il cuore della battaglia, ancora una volta. Una battaglia prevista, che dura da anni, malcelata dietro la patina turistica che ricopre la città vecchia, come una cappa. Nascosta dientro equilibri tesi e precari, che sono pronti a spezzarsi in un istante.
E allora, non è un caso che i primi a sollevarsi siano stati gli shabab dei sobborghi di Gerusalemme Est, dove l’occupazione è penetrante ed espropriante, ma se possibile ancora più invisibile. Silwan, Sheik Jarrah, Issawiya: nomi che non hanno diritto all’esistenza, come le vite delle migliaia di bambini e adolescenti che vi risiedono.
«Certo che possiamo parlare di Intifada», risponde Lema alla domanda su come dovremmo definire quanto sta accadendo. «Lo è nella pratica, per il livello di coinvolgimento popolare nella lotta. Per capire se questa definizione sarà calzante, però, dovremmo vedere quanto durerà, se andrà avanti o si fermerà. Per ora nessuno ha intenzione di fare un passo indietro. E poi lo spirito dell’Intifada è nell’aria».
Parla di una quotidianità stravolta Lema, di un caos che attraversa tutto e tutti, come non accadeva da anni. «Nessuno più ha una vita normale qui, siamo costantemente attaccati al telefono, alla radio, alle notizie in tv. E quando non lo siamo scendiamo in strada a manifestare», racconta.
Tutto è cominciato «a settembre, dopo le violazioni commesse contro i palestinesi che volevano andare a pregare alla moschea di Al Aqsa. C’è stata una reazione molto forte, che questa volta ha coinvolto tutta la popolazione senza distinzioni. All’inizio di ottobre poi ci sono stati gravi episodi di violenza in tutta la Cisgiordania, soprattutto da parte dei coloni che da mesi hanno alzato il livello di aggressioni. Per difenderci abbiamo organizzato comitati di quartiere a protezione delle case. Ramallah e Betlemme hanno iniziato a manifestare, seguite da Jenin, Nablus, Qalqilya: 25 martiri palestinesi sono caduti solo nei primi giorni di ottobre. Ora l’intera Palestina è in rivolta, dalle città della Cisgiordania fino a Gaza. Senza distinzioni», spiega Lema.
Ma il problema in Palestina – oltre all’Occupazione e alla violenza israeliana – era e resta la leadership interna.
Non solo l’ANP ed il suo utilizzo delle forze di polizia, che in passato tante volte è stato repressivo al pari di Israele. Non solo per il rischio, sempre presente, che dopo le dichiarazioni di Abbas si torni comunque al tavolo (perdente) dei negoziati contro la volontà popolare.
Ma perché è la stessa storia palestinese ad insegnare che senza una guida la rivolta viene sedata. O strumentalizzata. O militarizzata. O, drammaticamente, messa a tacere.
Lo racconta la prima Intifada, e quegli Accordi di Oslo che si sarebbero rivelati la pietra tombale posta sulle aspirazioni popolari, in un processo di sistematico smantellamento della struttura di resistenza palestinese e «importazione» dall’esterno una leadership non rappresentativa. E lo racconta la seconda, per la quale i palestinesi hanno pagato un prezzo troppo alto.
E allora, è questo che cerchiamo di capire. Per comprendere se questa volta ciò che infuoca le strade sia diverso da quanto abbiamo già visto in passato. Se ci attenda una terza rivolta perché la situazione cambi davvero.
Lema, c’è qualcuno che sta guidando questa protesta? E se sì, chi?
No, non posso dire che ci sia un movimento che sta guidando le rivolte in modo organizzato. Per il momento sono ancora manifestazioni spontanee, anche se la partecipazione è davvero orizzontale: dagli studenti delle università ai partiti politici. Abbiamo assolutamente bisogno di organizzarci con un comitato che coordini e guidi le proteste perché le tattiche che i coloni stanno mettendo in campo sono estremamente violente. La novità rispetto al passato è che c’è un’unione totale, da Gaza alla Cisgiordania, tutti sono in strada. E’ anche un messaggio forte verso Israele e verso la nostra leadership: siamo uniti, la Palestina per noi è una sola, e stiamo lottando tutti per la stessa cosa: unità e libertà.
La gente è pronta: ci sono migliaia di persone per strada ma nessuna leadership sul terreno. Non stanno partecipando, non sono con noi, e questo ci spaventa. Abbiamo paura che la politica finirà ancora una volta per appropriarsi della rabbia popolare per i propri fini.
Come si sta comportando in questo senso l’Autorità Palestinese?
Dopo il discorso del presidente Abbas all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (il 30 settembre scorso, ndr) l’Autorità, e soprattutto le forze di polizia, si trovano in una situazione estremamente delicata. Abu Mazen ha dato un messaggio: non andremo avanti con i negoziati se Israele non accetterà le richieste palestinesi. E’ una parola che va rispettata. Sin dai primi giorni le forze di sicurezza palestinesi non stanno impedendo lo svolgersi delle manifestazioni. Decidere di ostacolare le rivolte sarebbe davvero un’azione rischiosa adesso, che si opporrebbe palesemente alla volontà popolare. Così come tornare al tavolo dei negoziati.
Come si stanno collocando in questo contesto i villaggi della Resistenza popolare in cui il Popular Struggle Coordination Committee (PSCC) è presente e attivo ormai da 10 anni?
Stanno partecipando, sono tutti continuamente in rivolta. Ma le manifestazioni sono diventate molto più pericolose, l’esercito sta rispondendo con rinnovata aggressività e violenza. Anche per questo tutte le associazioni della società civile stanno dando il proprio contributo: gli avvocati, i medici, gli impiegati dei ministeri. L’aria che si respira è di mobilitazione permanente ad ogni livello della società. Per quanto ci riguarda, siamo coinvolti a livello individuale e collettivo, e stiamo cercando di organizzarci con gli studenti, in modo che siano preparati a fronteggiare la violenza dei coloni e dell’esercito.
Quali elementi di differenza ci sono rispetto ad altre fasi storiche?
Che la gente è arrabbiata come non lo era mai stata. Il popolo sta dando un messaggio forte, sia alla sua leadership che alla comunità internazionale: è davvero arrivato il momento di intraprendere azioni serie per liberare la Palestina. Ma il punto centrale è il coinvolgimento di una nuova generazione di ragazzi giovanissimi, che non hanno vissuto ne’ la prima ne’ la seconda Intifada, e che sentono di dover prendere posizione e agire, dare il proprio contributo per cambiare la direzione delle cose.
E’ una generazione che ha conosciuto solo negoziati falliti, rassegnazione e frustrazione: non ne possono più della politica, vogliono liberare il proprio paese attraverso l’azione diretta e la resistenza popolare. Sono loro l’anima della lotta. Quando chiedo a ragazzi di 18-20 anni se hanno paura mi rispondono che no, questo non è il momento di avere paura. E’ il momento di liberare la Palestina.
L’impressione, da lontano, è che dobbiate anche fronteggiare una rinnovata unione tra coloni ed esercito, e un modo di agire di entrambi ancora più violento e aggressivo del solito. E’ così?
Assolutamente. Le strade tra Ramallah e Betlemme sono completamente bloccate dai coloni che tirano pietre contro le auto palestinesi, muoversi tra una città e l’altra adesso è davvero complicato. E pericoloso. Non sono un’analista politica ma se guardiamo a cosa sta succedendo in Israele, direi Nethanyahu è tenuto sotto scacco dai coloni, che il mese scorso hanno organizzato manifestazioni perché pretendono protezione da parte del governo, pena la sua caduta.
Sembra che l’esercito stia cercando di soddisfarli alzando il livello di violenza. Eppure definire «civili» i coloni, anche alla luce dei recenti omicidi commessi, è assurdo: sono armati, sono illegali sul nostro territorio, e sono pericolosi.
Pensi che ci sia il rischio di una militarizzazione della lotta? E quali saranno i prossimi passi da intraprendere?
Il popolo palestinese non è pronto ad essere militarizzato, e non vuole esserlo. Ma sicuramente deve essere organizzato. Non ripeteremo lo stesso errore commesso durante la seconda Intifada: sacrificare così tanto senza avere niente indietro. Continueremo a resistere e a organizzarci, non ci arrenderemo facilmente questa volta. Andremo avanti finché non saranno prese decisioni politiche che portino i coloni ad uscire dai territori del 1967. E’ già illegale la loro presenza qui, figuriamoci le violenze impunite che stanno commettendo. Come PSCC abbiamo fatto appello ai movimenti e alla comunità internazionale perché siano fatte pressioni su Israele e sui governi europei e perché sia finalmente messa fine a questa situazione.
Mentre parliamo con Lema i feriti palestinesi salgono a 1.300, e mentre scriviamo le vittime sono diventate 30. Gli scontri non accennano a fermarsi, i numeri sembrano destinati a salire, e per oggi – 13 ottobre – è stata dichiarata una nuova “giornata della collera”.
Intanto, dal carcere in cui sta scontando una condanna a 5 ergastoli ha fatto arrivare il suo messaggio anche Marwan Barghouti, lo storico leader di Fatah.
Un segnale importante, e per la verità atteso, perché è come sempre dall’interno delle carceri israeliane, attraverso la voce dei prigionieri politici, che la lotta popolare viene incoraggiata e indirizzata. E questa volta Barghouti ha scelto di lanciare un appello chiaro al suo popolo.
«Follia è continuare a fare sempre la stessa cosa e aspettarsi che il risultato cambi. Non possiamo convivere con l’occupazione, e non ci arrenderemo all’occupazione. Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occasioni e occasioni per raggiungere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. In mancanza di un intervento internazionale per porre fine all’occupazione, in mancanza di una seria azione dei vari governi per interrompere l’impunità di Israele (…) cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspettare che un’altra famiglia palestinese sia bruciata, che un altro giovane palestinese sia ucciso, che un altro insediamento sia costruito, che un’altra casa palestinese sia distrutta? (…).L’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace. Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire subito, perché si realizzi la prima condizione».
È un invito ad agire. A prendere le strade, a trovare un modo di farlo. A tornare a credere in qualcosa che non sia solo rassegnazione, muri, polvere e indifferenza.