sono cresciuti con il muro, le intifade, i permessi e i closures,
i coloni e i soldati fuori dalla propria città.
E oggi, stimolati dalla disperazione della quotidianità,
stanno dicendo la loro
di Costanza Pasquali Lasagni, da Gerusalemme
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
«Jil Oslo», mi spiega M., quando passo a salutarlo in libreria. «Jil si scrive con la j?», chiedo, annotando la nuova parola araba sulla mia agenda. Jil Oslo, la generazione di Oslo, è la generazione di ragazzi nata, cresciuta, vissuta nell’era Oslo, ovvero negli ultimi due decenni che qui prendono il nome dal celebre accordo di pace la cui struttura giuridica ancora governa la situazione della Palestina.
Se fino a qualche anno fa la generazione Oslo incarnava un’idea di vita confortevole, fatta di telefonini, jeans, computer, università, ma anche di arti, hip hop e in generale di cultura giovanile, in questi giorni finalmente sembra essercisi resi conto che forse tanto confortevole la vita negli ultimi venti anni in Palestina non lo è stata. Mentre noi crescevamo con i gruppi pop, gli interrail e le low cost, l’allargamento della zona Schengen e l’Erasmus, chi ha conosciuto solo l’era Oslo è cresciuto con il muro di separazione, con le intifade, con il sistema di closures e permessi, con i coloni e i soldati fuori dalla propria città – quando non dentro, come a Hebron, chiusi nei propri 360 chilometri quadrati – come a Gaza, e in diretto contatto, tramite i social media, con le generazioni di ragazzi fuori dalla Palestina che invece erano più liberi di loro. E che, al contrario di loro, potevano pensare di avere un futuro.
La generazione di Oslo ha conosciuto familiari uccisi o imprigionati, case espropriate, o bombardate, ha esperienza diretta di violenza, quando non già di carcere, che qui, nel caso di detenuti palestinesi in carceri israeliane, non brilla per standard internazionali di giustizia giovanile, anzi.
E ora, i ragazzi di Oslo, “Children of Oslo” o “Youth of Oslo”, come sono stati nominati da alcuni media, stanno dicendo la loro. A modo loro. Uno a uno. Non organizzati, stimolati, anzi, dalla disperazione della quotidianità. Soli e senza protezioni, vanno incontro, a volte ben consapevoli, a volte meno, a situazioni più grandi di loro.
In questi giorni a Gerusalemme ci vuole poco per essere ucciso sul posto dai soldati. Scordatevi processi, arresti, interrogatori. Qui si viene uccisi sul colpo, in barba ad ogni regola dello stato di diritto.
Amnesty International lo ha denunciato proprio pochi giorni fa, mentre sui media israeliani si descrive come l’uccisione extragiudiziale dei terroristi, anche quando non abbiano commesso alcun reato – come è il caso di alcuni dei ragazzi palestinesi uccisi – sia sempre più accettata dai civili israeliani. Insieme all’uso di proiettili veri nella gestione della folla. I danni sono sotto gli occhi di tutti, ad ogni manifestazione popolare.
«I ragazzi di Oslo sono i nostri ragazzi», mi spiega N., mentre sfoglio l’ennesimo libro appena uscito. «Finché qui leggiamo di Gaza, di Hebron, di Jenin ci sembra lontano. Ma qui a Gerusalemme Est ci si conosce tutti. Questi sono i nostri figli». E ha ragione. Sono i nostri figli, fratelli, amici.
«Ci sei? Puoi rispondere? Habibty, chiamami appena puoi, it’s very important». Era solo tre giorni fa. Avevo lasciato il cellulare in modalità silenziosa durante la carica della batteria, e non avevo sentito le chiamate. Nel frattempo avevo iniziato come ogni mattina il rituale di lettura delle notizie e, alle sole dieci di mattina, il conto degli incidenti a Gerusalemme era già alto. L’avevo richiamata. E la notizia era arrivata come una coltellata gelida, come uno di quei pugni nello stomaco talmente potenti da farti smettere di pensare, provare emozioni, respirare.
«Hanno ucciso il figlio di A. I soldati. In Città Vecchia. Un’ora fa». A. è un nostro amico e collega, che lavora per una rispettabilissima organizzazione internazionale. M., il figlio, aveva 18 anni.
Nessun media israeliano riportò quel giorno o nei giorni successivi che fosse armato e che stesse mettendo a rischio la vita dei soldati che lo avevano fermato, e poi ucciso. Anche M. era un ragazzo di Oslo, uno dei figli di Gerusalemme Est, uno dei figli della politica di questi ultimi venti anni, per non dire degli ultimi sessanta, che non aveva spazio per dire la sua. Non conosciamo i dettagli della sua uccisione, come non si conoscono i dettagli degli altri.
Per la prima volta i corpi dei palestinesi uccisi dall’esercito, o dalla polizia di frontiera, non vengono restituiti alle famiglie ma “smaltiti” dal governo israeliano, leggo sulle news. Come in ogni cultura in cui il rispetto dei rituali funerari e di sepoltura è parte importante della coesione sociale e familiare e del processo di elaborazione del lutto, questa nuova regola è percepita come l’ennesima provocazione. Quella, e tutte le nuove regole “corollario” approvate di gran fretta nelle ultime ore dal governo al di qua del muro: demolizione delle case delle famiglie dei “terroristi”, revoca dei permessi di residenza permanente a Gerusalemme per i familiari. Insomma, tutti devono pagare.
«Vai a Gaza, lì sarai più al sicuro», mi intima ironicamente R., ex collega, incontrandomi per strada.
Il traffico scorre placido, ma è decisamente minore rispetto ad una giornata media su Salah ed Din street, dove puoi udire i clacson a centinaia di metri di distanza e devi sgomitare per camminare sul marciapiede striminzito e scansare le signore che vendono mazzi di menta e olio d’oliva sotto i portici. Oggi invece si aggira qualcuno, ma quasi in sordina. I negozi palestinesi, che ieri erano chiusi per protesta, oggi sono aperti. «In compenso almeno non passa più la polizia ogni due minuti», continua M., la cui libreria affaccia sulla strada commerciale, «prima erano sempre qui, ora almeno ci stanno lasciando in pace. Forse per la prima volta hanno paura anche loro». Loro sono gli israeliani. Civili, poliziotti, coloni.
Su Haaretz, il quotidiano israeliano di sinistra, alcuni editorialisti iniziano a chiedersi se ci sia anche della responsabilità da parte israeliana negli eventi degli ultimi giorni, se questo è da attribuirsi alle scelte politiche degli ultimi anni: l’incremento delle costruzioni per i coloni, l’assenza di dialogo politico, il pugno di ferro nella sicurezza. Ciò che a Est è chiarissimo, a Ovest purtroppo ancora non lo è.
Nel pomeriggio sono spuntati i posti di blocco israeliani alle uscite di Gerusalemme Est. I poliziotti fermano le macchine, aprono i bagagliai, controllano documenti, perquisiscono i pedoni, principalmente ragazzi.
Vedere tre soldati armati intorno ad un ragazzo mi terrorizza. Mentalmente prego che non succeda niente, ma tengo un occhio lì, mentre continuo a camminare. Io, ovviamente, capelli corti e Birkenstock, non vengo fermata. Lombroso ha fatto scuola in questa terra, dove due israeliani sono stati uccisi nei giorni scorso da “fuoco amico” di civili israeliani perché avevano “sembianze arabe”.
I ragazzi di Oslo costituiscono due terzi della popolazione palestinese. Tale proporzione si riflette anche nei numeri dei ragazzi uccisi – coinvolti o meno in atti terroristici – in questi giorni, riporta l’associazione per i diritti umani Al Haq.
Su trentadue ragazzi morti, il conto è aggiornato al 14 ottobre, nessuno aveva più di 23 anni di età, 12 i minori di 18 anni. Nonostante questi numeri facciano rabbrividire, non c’è nulla che non torni dal punto di vista demografico.
«Una lotta di liberazione nazionale passa anche attraverso la violenza, e le sue conseguenze», mi dice S. «Questi ragazzi hanno deciso di continuare quello che non è stato completato. Quello che non è stato raggiunto con la violenza, ma che non è stato nemmeno raggiunto con gli accordi di pace. Questo è il loro modo di prendere la loro posizione. Questi ragazzi sono nati senza futuro».
Che la situazione attuale rifletta l’enorme fallimento diplomatico lo sottolinea anche Raja Shehadeh, di passaggio a Gerusalemme per presentare una nuova raccolta di saggi sul Medio Oriente. «Abbiamo smesso di credere che il cambiamento potesse avvenire tramite la diplomazia, o tramite le organizzazioni internazionali per i diritti umani». Ma soprattutto, «abbiamo smesso di credere nella giustizia», colpevole anche un Occidente ‘illuminato’, accecato invece da una guerra contro un terrore non meglio specificato attraverso la quale oscura il rispetto dei più basilari diritti umani. E che ora sembra finalmente chiamato a rispondere degli ultimi cento anni di “diplomazia” in Medio Oriente, dagli Accordi di Sykes-Pikot in poi. Gli shebab di Oslo hanno conosciuto solo gli ultimi venti, e sono bastati per smettere di crederci.
Al momento non esiste alcun modo, per i Palestinesi, specialmente tra i giovani, di poter cambiare la situazione, su nessun livello. E nessun cambiamento sociale o politico avviene in tempi rapidi. La disperazione continuerà a prosperare per i prossimi giorni, mesi, anni.
«Ci si schiera?», mi chiese Mimmo a Molfetta. Ero rimasta un po’ interdetta. Certo che ci si schiera. Ma non contro o a favore di chi porta un coltello o un mitra o una divisa. Ci si schiera per muovere tutti i mezzi possibili perché nessuna generazione sia perduta, nessuna persona nasca pensando di non avere futuro, e di non avere diritto ad averlo, o peggio, che quel diritto di cui altri godono, a lui o a lei sia stato tolto alla nascita.
Ci si schiera, oggi e ogni giorno, con un’urgenza assoluta e non più rimandabile per rilanciare il dialogo, la non violenza, la diplomazia e tutti i mezzi, inclusi quelli dal basso, che tutti noi abbiamo a disposizione, altrimenti le generazioni perdute, da quella siriana a quella di Oslo, a quelle che vengono a bussare, in condizioni miserabili, alle porte del nord del mondo, le avremo perse anche noi. Vinceranno i coltelli, i mitra, e noi perderemo tutti.