A Gerusalemme il problema non è il traffico

Forse, per la prima volta dopo decenni, si torna a parlare di Gerusalemme. Delle conseguenze di un’annessione illegale dal punto di vista internazionale e insostenibile da quello umano.

di Costanza Pasquali Lasagni, da Gerusalemme

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

 

In questi giorni a Gerusalemme Est – ma anche ad ovest – è meglio lasciare a casa la macchina, e muoversi a piedi. Non perché sia pericoloso, ma perché a causa dei blocchi stradali sorti ad ogni angolo, il traffico cittadino ha raggiunto in pochi giorni livelli da Città del Messico.

Sui social media, unico luogo virtuale dove ci si può scambiare informazioni in tempo reale sulla situazione, già alle sei di mattina compaiono foto di file interminabili di macchine. Sono i lavoratori che ogni giorno dalla West Bank si recano a Gerusalemme. Sono già abituati ad attese infinite ai check-point, tanto che alcuni decidono di dormire clandestinamente a Gerusalemme ogni tanto, rischiando il proprio permesso ed eventuali punizioni collettive, ma in questi giorni il traffico è davvero peggiorato. “Com’è la situazione adesso?” scrive qualcuno sul gruppo Facebook Qalandya/Hizme. “Fadi”, vuota, passa pure, risponde un altro. Qualcuno posta lo screenshot di Waze, l’app israeliana che permette agli utenti di postare in diretta aggiornamenti sul traffico: Gerusalemme Est è letteralmente sommersa di icone della polizia. Qualcun altro mette la mappa dei nuovi checkpoint: crocette fatte su uno screenshot di Google map. Tutto è utile.

Sono cubi enormi di cemento, scaricati alla bell’e meglio nel mezzo delle strade, per bloccarne completamente l’accesso, come alla rotonda di Wadi el Joz tra la Hebrew University e il quartiere dei consolati europei di Sheikh Jarrah, o a Jabal Mukabber, o posizionati “a slalom” così da rallentare sensibilmente il traffico. I controlli sono a volte rilassati a volte più stretti, cioè si apre il cofano, si controllano i documenti. Provo a immaginare se una cosa del genere fosse fatta sulle vie che si immettono sulla Nomentana, e immagino che anche Roma si bloccherebbe in men che non si dica.

I soldati presidiano ogni angolo a gruppi di 4 o 5. Aria rilassata, mitra al collo ma sempre puntato, che quasi ho paura a mettere le mani in tasca quando gli passo accanto, cosa che accade più o meno ad ogni incrocio sotto casa, e gruppi di giovani israeliani che portano loro generi di conforto, panini, bibite, vassoi di dolci.

Dall’altro lato della Route 1, la vecchia Linea Verde, la vita è tornata lentamente alla sua piccola frenesia. Nablous road, all’ora di punta, è una fila continua di autobus, pullman di pellegrini, automobili che cercano di raggiungere la via principale. Ci si scambia colpi di clacson, chiacchierate da un finestrino all’altro. “Ero andata in vacanza e ora mi sono ritrovata Qalandya sotto casa!”, scrive R. sui Facebook, alludendo al sistema di blocchi e controlli finora mai visto a Gerusalemme Est e sorto come un fungo nel giro di una notte.

La situazione in città si è indubbiamente rilassata rispetto ai giorni passati, data la diminuzione di episodi di violenza. Le scuole palestinesi, che erano state chiuse dai singoli direttori scolastici la settimana scorsa, per timore di esporre i bambini ed i ragazzi a ritorsioni ed attacchi da parte di fanatici, ora hanno riaperto. Le signore sono tornate a vendere la loro menta sedute tra i loro sacchi di verdura sotto i portici di Salah ed Din street, ma che siamo ad un nuovo, ennesimo, status quo, che non sappiamo quanto durerà, è chiaro. Niente è come prima ormai. La percezione di essere stati, e forse ancora essere – visti i recenti eventi di Beershev – considerati target è ancora forte. “Magari metti via la borsa con scritto ‘Israele’”, suggeriamo ad un amico in visita, mentre passeggiamo a su Sultan Suleiman road, la strada che costeggia le mura della Città Vecchia tra Damascus Gate e Herod’s Gate. Ho ritirato fuori la kefya, a Gerusalemme Est mi sento a casa.

“Secondo me entro fine mese toglieranno i blocchi.”, prevede un negoziante. “Si stancheranno, non possono tenere tutti questi soldati attivi, il traffico arriva anche a ovest e bloccherà anche loro”. Quello è poco ma sicuro, dato che la Route 1 da giorni è bloccata e per andare a raggiungere l’autostrada per Tel Aviv ormai dal centro città ci vuole più di un’ora, mentre prima in una ventina di minuti te la cavavi.

Ho lasciato la macchina a casa, per disperazione, e mi aggiro a piedi a vederli da vicino, questi blocchi. L’ennesima complicazione della vita a Gerusalemme, di sicuro inutile dal punto di vista della sicurezza.

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Intifada dei coltelli. Intifada di Gerusalemme. Intifada degli individui.
Da due settimane tutti provano a attribuire un nome alla questa nuova fase violenta della vita sotto occupazione. Come se assegnare un nome fosse l’unico modo per validarla, e purtroppo anche catalogarla, mentre non darglielo equivarrebbe a ridurre tutto ad una manica di ragazzi impazziti senza radici né supporto politico.

E quindi? La chiudiamo così?

Ci stiamo perdendo qualcosa. Ci stiamo lasciando sfuggire qualcosa, di grosso. Sicuramente sta sfuggendo alla politica, che pensa che bloccare quattro strade, o anche tutte, sia una soluzione sostenibile che affronta direttamente le radici di settant’anni di conflitto sulla città santa, che ricordiamolo, è e deve essere un patrimonio universale, e non un ostaggio politico. Sta sfuggendo a chi chiede alla classe politica palestinese di “ostacolare” o “bloccare” i giovani lupi solitari, come se non vedesse la trave nell’occhio di un sentimento antipolitico a tutto tondo.

Gerusalemme Est è stata semplicemente abbandonata negli ultimi decenni. Prima occupata, poi annessa, di sicuro abbandonata a se stessa, dato che i servizi municipali, nonostante le tasse pagate dai residenti palestinesi, non vi arrivano.

Ogni famiglia ha esperienza di ordini di demolizione, o arresti, familiarità con il sistema dei permessi di residenza. Ogni giorno ci chiediamo a chi toccherà oggi. Il nuovo spiazzo fresco di ruspa è qui, a poche centinaia di metri da casa mia.

Forse Gerusalemme, la città che a tutti costi è stata voluta “unificare” con pietra bianca e nuovi confini municipali negli anni settanta, ora non è mai stata così divisa, fisicamente. Grazie ai nuovi blocchi, ai nuovi pezzi di muro che vengono calati da gru con la stessa facilità di un pezzo di Lego, la città è finalmente “spartita” come molti si auguravano. Che questa fosse un’enorme contraddizione se n’è accorto il primo ministro, che ha prontamente bloccato la costruzione del muro a Gerusalemme. Sarebbe ammettere il fallimento della politica urbanistica degli ultimi 48 anni.

Forse, per la prima volta dopo decenni, si torna a parlare di Gerusalemme. Delle conseguenze di un’annessione illegale dal punto di vista internazionale e insostenibile da quello umano. E i giovani lupi solitari, con il loro entusiasmo suicida, la loro rabbia, sono esattamente il prodotto di una vita insostenibile, nata in condizioni insostenibili e continuata peggio. Perché la domanda di fronte ad un video inumano di un bambino, che aveva prima tentato l’attacco ad un coetaneo israeliano, e che poi viene massacrato di botte e insultato dai soldati e lasciato dissanguare con un’ambulanza vicino che non interviene per ben 25 minuti, non deve essere se è palestinese o israeliano, o chi dei due bambini ha cominciato prima. E’ così difficile distinguere il dito dalla luna?

Manca un grande, enorme pezzo in questo complesso puzzle chiamato Gerusalemme. Un pezzo che non è sufficiente coprire con un cubo di cemento da una tonnellata, o isolare con due pezzi di muro. Un pezzo che dice che la negazione dei diritti, e di esempi ne possiamo trovare in tutto il mondo, crea solo diseguaglianza. E la diseguaglianza crea conflitto. E violenza. È un circolo vizioso, per cui la repressione, psicologica e violenta, crea solo altro conflitto.

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Quanti dei giovani lupi solitari avevano esperienza diretta o indiretta di violenza? Tutti. Di diritti negati? Tutti. Di soprusi? Tutti. Mi permetto di affermarlo senza analisi sociologiche o controlli a campione sotto mano, perché è sufficiente essere un palestinese a Gerusalemme per avere una vita di qualità inferiore. Basta leggere uno dei numerosi libri pubblicati sull’argomento, o un report di OCHA. Di letteratura, dati e informazioni a disposizione ce ne sono veramente tanti. Basta farsi una passeggiata a Gerusalemme per capire che non si è tutti uguali. E che l’umiliazione seminata quotidianamente dall’occupazione dello spazio, delle vite, dei diritti, da qualche parte si annida, germoglia e, prima o poi, uscirà. Non giustifichiamo i lupi solitari. Ma almeno cerchiamo di comprendere l’humus sociale nel quale sono nati e cresciuti, di entrare nelle loro teste e ascoltare le loro voci, prima che diventino grida. Cerchiamo di capire che non è tappando – strade, vite – che si impedirà l’esplosione.