Un’analisi dell’agenda europea rispetto al conflitto in Terra Santa
di Mattia Toaldo e Hugh Lovatt, European Council of Foreign Relations, Londra, tratto da EuObserver
Oggi (20 ottobre 2015, ndr), l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Federica Mogherini, aggiungerà il suo contributo agli sforzi internazionali in corso per contenere e in ultima misura ridimensionare l’ultima ondata di violenze israelo-palestinesi, in occasione della visita del presidente Mahmoud Abbas a Bruxelles.
L’agenda Mogherini punta ad individuare azioni concrete che possano essere intraprese da entrambe le parti per poter calmare le tensioni sul terreno e possibilmente re-infondere un senso di fiducia nella moribonda soluzione dei due stati.
Per Mogherini, tale incontro costituisce un’occasione per posizionare l’Europa come parte coinvolta sempre più responsabile nella soluzione dell’ormai longevo conflitto israelo-palestinese, magari dimostrando come le istituzioni europee possano lavorare in tandem con il Segretario di Stato Americano, John Kerry, il quale sta a sua volta intraprendendo una serie di dialoghi con i differenti leaders regionali.
L’evento arriva in un momento in cui l’Unione Europea ed i suoi stati membri hanno finalmente dimostrato segni sempre maggiori di una azione diplomatica finalizzata a sbloccare i negoziati israelo-palestinesi, che sia sotto l’egida del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nella forma del supporto parlamentare europeo per il riconoscimento della Palestina, o nei tentativi di escludere gli insediamenti israeliani dagli accordi bilaterali UE-Israele.
Nonostante l’intrinseco potenziale di questa linea diplomatica dell’Europa e le considerevoli aspettative costruite nel corso dell’ultimo anno, nel 2015 è stata disattesa l’opportunità di riempire il vuoto diplomatico lasciato dal ritiro americano in seguito al fallimento dei tentativi di negoziati di pace condotti da Kerry nell’aprile del 2015.
I leaders europei non sono riusciti ad articolare chiaramente la loro visione per la soluzione del conflitto, o quale effettivo ruolo da “pioniere” gli Stati Uniti avrebbero potuto ricoprire.
Né l’Europa è riuscita a portare a termine soluzioni anche di breve periodo all’indomani della distruttiva guerra a Gaza dello scorso anno. Come dimostra l’attuale ripresa della violenza israelo-palestinese, la capacità dell’UE di monitorare e gestire il conflitto durante l’assenza americana è stata tutt’altro che brillante.
Quello che accade sul terreno in Israele e nei Territori Palestinesi occupati ha numerosi fattori scatenanti e sarebbe dunque scorretto attribuirne l’intera responsabilità alla porta europea. Al tempo stesso, è ormai chiaro che l’inattività europea unita alla perdita di fiducia dei Palestinesi nelle negoziazioni, la stagnazione umanitaria a Gaza, la democrazia palestinese agli sgoccioli ed una leadership palestinese divisa ed impopolare sono stati fattori sostanziali e costituiscono questioni su cui l’Europa ha ancora un ruolo importante da giocare, anche se finora le sue prestazioni non sono state delle migliori.
Nonostante l’Unione Europea abbia investito tempo e risorse considerevoli nel corso dell’ultimo anno per discutere potenziali modelli di riavvio dei negoziati, non è stata fatta alcuna valutazione obiettiva sui fallimenti precedenti e sulle misure da mettere in piedi per superare tali fallimenti in futuro.
Il dibattito tra optare per un Quartetto – il gruppo delle Nazioni Unite per la mediazione del conflitto israelo-palestinese – “allargato”, come suggerito da Mogherini, o seguire la traccia francese che preme per una creazione di un Gruppo Internazionale di Supporto ha ulteriormente consolidato le divisioni interne all’Europa e sottratto tempo e risorse alla più importante urgenza di cercare alternative costruttive.
Gaza
Ma è stata indubbiamente la questione di Gaza la testimonianza della più grande abdicazione di responsabilità da parte dell’Unione Europea, nonostante gli impegni dati in seguito ad ogni ondata di devastazione. Dopo la guerra dello scorso anno, l’UE ed i suoi stati membri ancora una volta hanno promesso considerevole assistenza tecnica e finanziaria per la ricostruzione della Striscia.
Eppure, a più di un anno di distanza, il contributo degli stati europei è stato solamente di circa 127 milioni di Euro, rispetto ai 315 milioni promessi in aiuti. Nemmeno l’impegno europeo in un meccanismo capace di alleviare la morsa israeliana e fornire il tanto demandato sviluppo economico nella Striscia si è materializzato.
Naturalmente, ben poco può essere veramente ottenuto tecnicamente a Gaza senza affrontare la questione politica della riconciliazione palestinese. Anche qui, l’Unione Europea, come maggiore donatore dei Palestinesi, ha la sua influenza.
Ma le considerazioni di politica interna e la “no-contact” policy con Hamas hanno decisamente ostacolato la capacità europea di giocare un effettivo ruolo di mediatore. Come risultato, l’UE è stata costretta a contare su Norvegia e Svizzera. Se l’UE è realmente intenzionata a mettere in piedi un meccanismo capace di ripristinare la stabilità palestinese, allora concentrarsi sui punti appena menzionati sarebbe un ottimo inizio.
In ogni caso, affrontare le affermazioni palestinesi secondo cui Israele da tempo cerca di minare lo status quo del Monte del Tempio/Spianata delle Moschee costituisce un’altra opportunità per raggiungere risultati di breve periodo.
Così come è successo per la violenza palestinese che ha scosso Gerusalemme Est lo scorso anno, esiste la possibilità che l’attuale ondata possa sgonfiarsi allo stesso modo, ma se fosse così, sarebbe più per la natura della violenza che per l’efficacia di un intervento internazionale.
In assenza di seri tentativi di affrontare l’insieme dei fattori chiave dietro la violenza palestinese e il contesto nel quale accadono – vale a dire un’occupazione israeliana che presto entrerà nel suo cinquantesimo anno e un progetto di insediamento che ha tutte le caratteristiche per essere considerato permanente – un ritorno alla calma sarà solo temporaneo.
Riavvio
A questo punto non è ancora chiaro se gli Stati Uniti vorranno sfruttare il momento positivo che deriverà dal ridimensionamento del conflitto dalle due parti, per avviare un rinnovato processo di pace. Ma una nuova versione del “processo di pace”, in un tale ambito, porterà probabilmente ad un ulteriore irrigidimento da parte israeliana, piuttosto che al raggiungimento di una pace durevole.
Inoltre, il fallimento di un ennesimo round di negoziazioni potrebbe, come avvenuto in passato, innescare livelli ancora maggiori di violenza ed instabilità. Porre soluzione al conflitto richiede ben più che mettere Abbas e Netanyahu nella stessa stanza. Implica affrontare i fattori maggiormente responsabili di danneggiare le prospettive di una soluzione a due stati.
Nel dicembre 2013, lo European Council on Foreign Relations (ECFR) ha condotto il “Two State Stress Test”, evidenziando che, insieme all’espansione degli insediamenti e all’irrigidimento fisico dell’occupazione, un ulteriore fattore che ancor più danneggia la nascita di uno stato palestinese che coesista in pace con Israele è la dinamica del dibattito israeliano, dove la maggioranza non ha intenzione di abbandonare lo status quo, sia per motivi ideologici che per mancanza di ragioni urgenti.
La realtà fisica dell’occupazione può essere invertita. Dopotutto, Israele non sarebbe il primo paese a de-occupare e trarne benefici: prendiamo ad esempio la de-occupazione del Portogallo delle sue colonie a metà degli anni Settanta (con l’assorbimento di centinaia di migliaia di coloni nell’economia portoghese) e il suo conseguente sviluppo economico grazie ad una crescente integrazione con l’Unione Europea.
L’opinione israeliana
Gli sforzi europei dovranno quindi concentrarsi verso l’opinione pubblica israeliana.
Nonostante non esista alcun consenso europeo su un eventuale confronto diplomatico con Israele, l’eccezione a questa regola giace lì dove l’impegno europeo alle proprie disposizioni giuridiche si scontra con l’insistenza politica da parte israeliana, che vorrebbe offuscare ogni distinzione tra il territorio sovrano riconosciuto ed i suoi insediamenti nei Territori Palestinesi occupati.
Implementando in toto la propria legislazione, che obbliga a differenziare tra gli insediamenti ed Israele, l’Europa è in grado di raggiungere obiettivi politici positivi, attraverso un graduale cambiamento degli interessi dell’opinione pubblica israeliana che sostiene lo status quo.
Tale azione è una necessità giuridica che non dovrebbe essere ostaggio della ripresa del processo di pace, piuttosto un fattore decisivo per ripristinare le condizioni necessarie ad un significativo riavvio.
Traduzione dall’inglese di Costanza Pasquali Lasagni