di Susanna Azzaro
Finalmente riusciamo a darci un appuntamento su Skype. Tutto sembra così semplice, basta un click per sentire la sua voce squillante che mi domanda come sto e, con non poco imbarazzo, gli rispondo che le cose non vanno poi così male in questa parte del globo.
Tentenno a fargli la stessa domanda: mi sembra di cattivo gusto chiedere notizie sul suo stato d’animo, calcolando che è stato appena condannato a 223 frustate e sei mesi di carcere. Mi rincuora almeno il fatto che sia ancora libero in questa fase di attesa in cui la corte d’appello dovrà decidere se confermare o no la pena.
Keywan Karimi si trova in Iran e di mestiere fa il regista, ci siamo incontrati a luglio in una deserta Teheran e non mi ci è voluto molto per capire che di fronte avevo una persona amabile e dallo spessore non comune.
Alcuni giorni dopo aver appreso con sgomento la notizia della sua condanna, siamo finalmente riusciti a trovare un orario che andasse bene ad entrambi per scambiare due chiacchere e questo post altro non è che il frutto di una lunga e lucida conversazione domenicale tra due individui che non potrebbero appartenere a due mondi più distanti.
Keywan nasce trent’anni fa a Baneh, in Kurdistan, e si rende conto presto di cosa vuol dire far parte di una minoranza etnica in Iran. Battute offensive, divieto di indossare gli abiti tradizionali e discriminazioni di ogni genere sono solo alcune delle problematiche con cui dovrà imparare a convivere fin da bambino ed è nella letteratura e soprattutto nel cinema che troverà un rifugio sicuro dalle angherie del mondo esterno.
È grazie a due registi iraniani, Sohrab Shadid Sales e Feridun Gole, che si innamorerà della settima arte e saranno quelli stranieri, Roy Anderson e Gay Doubur in primis, a fargli conoscere il mondo al di fuori di quei confini ancora invalicabili.
Trasferitosi a Teheran si iscrive a Scienze della Comunicazione e comincia a ben presto a trasformare le sue idee in qualcosa di concreto.
Il cortometraggio “The adventure of a married couple”, ispirato a un libro di Italo Calvino, partecipa a numerosi festival sparsi nel mondo e riceve delle ottime critiche ma è con un documentario intitolato”Writing on the city”, del 2012, che la vita del giovane cineasta comincia a prendere un’altra piega.
Un bel giorno degli individui non meglio identificati si recano nella sua abitazione di Teheran, gli sequestrano libri, appunti, dvd e passaporto e portano Keywan in un carcere dove rimarrà per quasi un mese e da cui uscirà su cauzione.
Il documentario incriminato parla dell’utilizzo dei graffiti sui muri della capitale iraniana a partire dal ’79, anno di inizio della Rivoluzione Islamica, e del ruolo che questi hanno avuto nell’esplosione delle rivolte popolari.
Nel corso degli anni il contenuto dei graffiti varia a seconda della circostanze politiche, fino ad arrivare alle elezioni del 2009 dove la repressione della polizia contro le masse fu spietata. Proprio a causa della presenza nel documentario di alcune immagini scomode cominciano i guai per Keywan che dopo la scarcerazione non si perde d’animo e continua a scrivere e creare.
Con il documentario “Broken Border” Keywan tratta dello smercio illegale di petrolio al confine tra Iran e Iraq, ma purtroppo inaspettata alcune settimane fa arriva la notizia della sua condanna da parte di un tribunale di primo grado che gli contesta di aver offeso i principi della Repubblica Islamica.
Dettagli sulle motivazioni della condanna non sono stati forniti e al cineasta non è stato nemmeno concesso il diritto di essere ascoltato da un giudice. Tra meno di un mese un altro giudice, della corte d’appello stavolta, deciderà se confermare la pena, annullarla o trasformarla in arresti domiciliari come già accaduto al più noto regista Panahi.
Contro di lui giocano il fatto di essere curdo e di trovarsi nel bel mezzo di una lotta politica tra chi sostiene l’apertura verso l’occidente di Rohani e l’opposizione che con il pugno di ferro vuole dimostrare che darà filo da torcere a ogni tentativo di cambiamento.
Nonostante le avversità Keywan ha un tono di voce sereno ed è convinto che parlare il più possibile della vicenda sia la sua unica salvezza. Un giudice con la percezione di avere gli occhi del mondo addosso ci penserà due volte prima di confermare la condanna soprattutto in questa fase di distensione e di costruzione di una nuova immagine dell’Iran.
Non può fare molto altro in questo momento della sua vita Keywan se non chiedere a tutti noi di sostenerlo e rendere nota la sua causa.
Online sono sorte una petizione indirizzata a Rohani e delle pagine di sostegno per Keywan.
Forse non serviranno a salvarlo da un destino appeso a un filo ma certamente lo aiuteranno a tenere su il morale.
È arrivato il momento di salutarci su Skype e l’imbarazzo di chi non sa cosa dire prende di nuovo il sopravvento.
“Devi tornare”, mi dice, “e andare nel Kurdistan iraniano stavolta. Se tutto va bene, ti ci accompagnerò io”.
Speriamo.