Libia, palla al centro

Naufragato il piano Leon, arriva Kobler, mentre il paese resta lacerato

di Cristiano Tinazzi

Palla al centro. Di nuovo. Una partita di calcio con infiniti tempi supplementari quella che si sta giocando in Libia. Il piano presentato dall’ormai ex inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, non passa, complici una serie di sabotatori interni presenti nei due schieramenti, quello di Tripoli e quello di Tobruk.

Ora entra in campo Martin Kobler, diplomatico di lungo corso ed ex inviato speciale Onu in Iraq, che dovrà gestire l’ennesimo confronto senza reti con due squadre poco inclini a cercare la porta.
Tripoli è riuscita a farsi accettare come controparte anche se non ha riconoscimenti a livello internazionale.
Tobruk, che rappresenta ufficialmente il governo libico nelle cancellerie occidentali, non ha la forze per imporsi sull’avversario e continua ad avere un fuoriclasse riottoso, il generale Haftar, che fa il bello e il cattivo tempo sostenuto dai supporter egiziani del generalissmo al-Sisi.

Mentre da più parti si invitano i due fronti a trovare un accordo, accordo che non arriva mai, la gente muore. Muoiono i migranti, che ancora cercano di prendere il largo dalle coste libiche (29 gli ultimi trovati annegati sulle coste della Tripolitania), muoiono i civili (12 gli ultimi, uccisi a Bengasi, in Cirenaica, da razzi sparati sulla manifestazione anti-islamisti) e si muore in battaglia, anche se questa guerra civile, al contrario di quella siriana, è a bassa intensità.

L’Italia, che ha una storia politica, economia e diplomatica con la Libia e che dovrebbe avere un ruolo principale come mediatore tra le parti, continua a rimanere nell’ombra. Settimana scorsa, nell’ambito della presentazione del Festival della Diplomazia a Roma, nella sede della Stampa Estera, è intervenuto Claudio Descalzi, l’amministratore delegato dell’Eni.

L’Ad ha parlato anche di Libia e della situazione in atto nel Paese, manifestando un certo ottimismo (seppure tra mille precauzioni) per il futuro prossimo. L’Eni, nonostante il semi-crollo dell’istituzione statale in Libia, continua a lavorare e a produrre, segno che la sua diplomazia, parallela a quella governativa italiana, riesce ad avere rapporti con entrambi gli schieramenti senza ripercussioni su installazioni e produzione.

Questi rapporti si concretizzano anche nella richiesta/imposta protezione di differenti milizie a seconda delle zone, che garantiscono la sicurezza dei perimetri delle installazioni petrolifere e del gasdotto Greenstream. Questo forse spiega anche l’immobilità del governo italiano, che non riesce neanche a sistemare la questione dell’ambasciata libica di Roma, preferendo non interferire nella richiesta di Tobruk che da mesi ha imposto al vecchio ambasciatore Ahmed Safar (filo Tripoli) di rientrare in Paese per lasciare il posto all’ambasciatore designato Ezzedin al Awami.

L’Eni quindi, e l’Italia, si trovano legate a doppio filo con una corda stretta che da una parte garantisce rendite economiche ma nello stesso tempo blocca prese di posizione nette.

Altro problema è sui rispettivi fronti interni, ovvero gli irriducibili che non vogliono nessun tipo di accordo con la controparte. I due parlamenti sono quindi ostaggio delle forze militari e delle loro espressioni politiche presenti nei parlamenti. A Tripoli l’uomo forte è Salah Badi, mentre a Tobruk abbiamo il generale Haftar.

Due giocatori solitari che difficilmente passano la palla ai compagni di squadra e non tollerano pareggiare.
Rimane non ultimo il problema dello Stato Islamico, che attualmente ha in mano solo Sirte e pare che nessun abbia la minima intenzione di andare a combattere per la riconquista della città.