di Valentina D’Amico, da Dyarbakir
Nessun comizio, nessuna manifestazione preelettorale. Diyarbakir, città a maggioranza curda nel sud est della Turchia, alla vigilia delle elezioni, sembra vivere un banale fine settimana di fine ottobre. Si va al lavoro, si fa la spesa, un via vai incessante per le strade. I lustrascarpe un po’ troppo sfaccendati tentano con i turisti, sparuti, non è certo meta ideale di vacanza, oggi più che mai, il paese di Erdogan.
Dopo le centinaia di morti disseminati nelle piazze e nelle strade, da Ankara a Suruc, al confine con la Siria, l’Hdp, il partito democratico dei popoli, che con il suo 13% di consensi e 80 parlamentari eletti nella precedente tornata del 7 giugno, ha sbaragliato i piani del presidente Recep Tayyip Erdogan di instaurare una repubblica presidenziale, preferisce tenere i toni bassi ed evitare di esporre la popolazione a pericoli ultriori.
“La nostra azione di propaganda, di sensibilizzazione continua con riunioni anche casa per casa – afferma Omer Onen, parlamentare dell’Hdp – domani ci aspettiamo non solo di confermare il risultato di giugno ma anzi di migliorarlo, prevediamo un 15% dei consensi e 100 deputati in parlamento”.
Nelle regioni curde, nel sud est, la pressione governativa è devastante. Un coprifuoco di otto giorni ha umiliato la città di Cizre provocando 21 morti e 100 feriti tra la popolazione stremata, senza cibo né acqua, costretta a tenere nei frigoriferi i corpi dei propri cari ammazzati. A Sur, quartiere popolare di Diyarbakir, il coprifuoco è durato tre giorni e dopo l’uccisione di due polizziotti la rappresaglia si è conclusa con la morte di 11 persone, otto uomini e tre donne.
Songul, una donna di 45 anni racconta “siamo stati svegliati nel cuore della notte da quattro colpi di arma da fuoco che hanno infranto i vetri della finestra e sfondato il muro di fronte nel soggiornono. Ho preso i miei bambini e con mio marito ci siamo riparati nel corridoio, il posto piu sicuro della casa, protetto dalle altre stanze. Siamo rimasti accovacciati per ore, al buio. Siamo umani – dice- non dovremmo farci la guerra fra di noi”. Mirzah, 26 anni, è riuscito a scappare alle forze speciali che, incappucciate, sono entrate in casa sua dove hanno trovato e sequestrato quatrro kalasnikov. Una settimana prima avevano arrestato il fratello, Mehmet 32 anni, rilasciato dopo tre giorni di botte. Il fronte delle abitazioni è crivellato dai fori delle palottole. L’intonato colorato di rosa, celeste, gliallo scrostato per i colpi subiti. Sulle strade rimangono i segni delle barricate, mattoni e sacchi di sabbia sfondati dalle forze di sicurezza.
Anche nelle campagne la situazione è molto tesa. Il fuoco innescato dai bombardamenti brucia ettari di boschi, persino i cimiteri non sono stati risparmiati. In poco meno di due mesi, dall’11 settembre al 23 ottobre, nelle citta di Agri, Varto, Catak, Garzan, Nusaybin, Cudi, Kars, Dersim, Lice, Sirt e Dicle le forze di sicurezza turche hanno bombardato undici cimiteri.
A Lice sono stati ridotti in macerie la moschea della minoranza alevita, il museo e la guest house adiacenti il cimitero Sehit Amed ve Sehit Hevidar bombardato il 17 ottobre. Le tombe non sono state centrate ma il marmo di rivestimento è stato scheggiato, rotto dai contraccolpi delle bombe. Un anziano s’arrischia sulla montagna di macerie rimasta a testimonianza dello scempio, piega in avanti la schiena barcollando in un equilibrio precario sulle gambe sottili di vecchio e raccoglie brandelli di un libro dalle pagine giallognole. Indugia nella lettura, consegna i fogli sconnessi ad un giovane seduto li accanto. Un altro è immobile, pietrificato tra le pietre.
Bombardare vuol dire cancellare la memoria collettiva, eliminare ogni traccia di resistenza a decenni di oppressione, infliggere alle famiglie dei defunti un doppio dolore, non lasciar loro neanche il conforto di una tomba su cui piangere. Eppure il sistema giudiziario turco impone il rispetto dei morti. La giurisprudenza islamica proibisce e condanna qualsiasi offesa ai defunti, il corpo e la cerimonia religiosa anche del peggiore dei nemici sono considerati sacri e inviolabili.
“In ogni incontro pubblico Erdogan esibisce il Corano – dice Ayse Dicle, copresidente di Meya-Der, l’associazione della Mesopotamia per l’assistenza e la solidarietà per le famiglie con parenti caduti – ma queste macerie dimostrano che non ha alcun rispetto per i luoghi religiosi. Questo e gli altri cimiteri sono stati bombardati con l’accusa che fossero luoghi di incontro o nascondigli per le armi del Pkk, ma e’ solo un pretesto per continuare a seminare paura”.
Sulla collina che domina il cimitero una tenda bianca come la calce custodisce un giaciglio di tappeti, provviste, un ventilatore e una stufa elettrica. Un rifugio precario, dal giorno del bombardamento, a presidio del luogo. All’ingresso una parabolica nuova di zecca, pulita, bianca anch’essa stride con la precarietà d’intorno, con il nero della terra e dei rami bruciati degli alberi di bacche e melograno. Si scorge sullo sfondo della tenda, in penombra la foto del leader curdo Ocalan da 16 anni unico recluso del carcere di massima sicurezza sull’isola di Imral nel mar di Marmara.
Cinque ore di viaggio ci sono volute per arrivare qui da Diyarbakir, per un tragitto che ne richiederebbe si e no un paio. Ma pochi chilometri fuori da Diyarbakir, siamo stati fermati ad un posto di blocco della polizia. Tutti e tre i pulmini con a bordo le delegazioni di giornalisti, giuristi, osservatori internazionali arrivati in questi giorni in Turchia in vista delle elezioni, sono stati trattenuti per oltre due ore dalle forze di sicurezza che hanno controllato documenti, aperto zaini e borse e preteso la consegna delle schede di memoria delle macchine fotografiche che giornalisti e fotoreporter hanno rifiutato di dare e per questo sono stati sottoposti ad accurate quanto invasive perquisizioni.
Il nostro accompagnatore, Cuneyt Aslan, 25 anni, militante del Congresso della società democratica, che aggrega tutta la galassia di associazioni, organizzazioni e forze politiche curde, compreso l’Hdp, spiega che “non si tratta di normali controlli. Loro, le forze di polizia, sanno benissimo il motivo per cui andiamo a Lice, conoscono i nostri programmi. Non fermano altri mezzi al di fuori dei nostri. Perquisiscono parlamentari, giornalisti per impedire che testimonino con foto o video la repressione, i soprusi a cui siamo sottoposti ogni giorno. In Turchia non c’è libertà di stampa”.
Nemico di youtube e twitter già prima delle elezioni del 7 giugno, il governo dopo la sconfitta ha inasprito i controlli sui media turchi, ha fatto chiudere quelli non graditi, le redazioni sono state prese d’assalto da militanti dell’Akp e un giornalista è stato persino seguito fin sotto casa e picchiato
“Il clima di paura imposto da Erdogan rafforza le convinzioni del popolo curdo – spiega Gulsen Ozer, copresidente dell’Hdp di Diyarkabir – da parte curda non ci sarasorpreserese domani, anzi prevediamo un innalzamento dei consensi. Anche i turchi però ormai hanno capito che l’Akp non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte, sul piano economico quanto su quello culturale e nell’attentato di Ankara durante la manifestazione pacifista del 10 ottobre scorso, tra le vittime c’erano anche loro.. Quando ci si oppone al governo Erdogan non fa distinzione tra curdi e turchi, capito questo credo che anche i turchi andranno a votare e non avranno paura”.
Domani i seggi apriranno alle 7 del mattino e chiuderanno alle 5 del pomeriggio. “Erdogan ha commesso troppi passi falsi – afferma Edip Berk, deputato dell’Hdp – e dunque se il nostro partito riuscirà ad avere una buona affermazione, è possibile che altre personalità possano farsi largo all’interno dell’Akp e decidere di muoversi su un sentiero di dialogo”. “Qualsiasi governo verra fuori dalle urne, noi saremo disposti al confronto – aggiunge Ziya Pir, deputato dell’Hdp – la nostra unica condizione è che si riprenda il processo di pace”.