Pasolini e la città

Il parallelo tra i centri urbani italiani e la poesia popolare del nostro Paese, secondo l’intellettuale di cui oggi si ricorda la scomparsa

di Carmine Piscopo

Non erano i monumenti, per Pasolini, i manufatti da salvare, quanto la forma della città, come un patrimonio inestimabile e anonimo, alla cui costruzione hanno collaborato epoche e generazioni, ora consapevolmente, ora, più spesso, inconsapevolmente, sul filo della realizzazione di specifiche realtà dentro cui si riflette, in maniera viva, una comunità anonima di sforzi.

Era questo, per Pasolini, il patrimonio da preservare, come un’immensa costruzione, un disegno potente dell’immaginario umano, che muta seguendo il filo di un’interna continuità, e diviene nel suo farsi esperienza.

Non diversamente, per Pasolini, il patrimonio della poesia popolare aveva edificato, dentro il Paese Italia, un Paese bellissimo, la cui “forma provinciale” gli conferiva un carattere di assolutezza; un Paese, al tempo stesso, metafisico e reale, come una “Venezia ruderale”, che nella sua forma essenziale si disponeva, allo sguardo e all’osservazione, come l’essenza stessa della città di Venezia. Non un suo simulacro, quanto l’immagine più vera della Venezia reale.

In ciò, dunque, era l’architettura anonima della città, con la sua sottoveste umile e sacrale: come un patrimonio di poesia popolare messo in forma dall’insieme delle generazioni passate e presenti, per smascherare le menzogne della storia, le mistificazioni e le demistificazioni, per dare corpo e volto a un’assenza che manda in crisi tutte le narratologie apologetiche del Principe, delle classi dominanti e dei vincitori. Come un immenso edificio che crolla dopo aver sedotto se stesso.

Così, l’architettura tutta, per Pasolini, diviene in virtù della sua forza narrativa, per farsi Città, comunità di vivi e di morti, come una forma visibile della storia che si identifica con i manufatti e le idee, con la sua singolare esistenza, fino a farsi espressione autentica di cultura.

In questo, era la prospettiva del suo realismo: nell’affondare le radici dentro la realtà, per illuminare, ancora, un orizzonte di attesa.

Come un ineludibile atto di ricezione e di amore che quel racconto, e quella città, hanno saputo accogliere e portare in seno. Come un processo anonimo, che si costruisce nello scheletro della storia, e ne prolunga il movimento.

È qui, di fronte a questa forza narrativa, che allinea senza mistero le borgate romane, come le case popolari di Orte, a una marginalità irriducibile dentro cui si svolge il filo della nostra stessa esistenza, che i fantasmi della cattiva coscienza di una Sinistra che da sempre propone controstorie, come castelli che si costruiscono su frantumi ideologici, uno ad uno, poeticamente, sono costretti ad incarnarsi. Come dei meravigliosi à-plat, in un gioco di tradimenti.