Pier Paolo Pasolini e il tema dell’educazione a partire dalle Lettere Luterane
Di Giuseppe Ferraro
I.
Delle “Lettere Luterane”*, quella di Gennariello, parla di Napoli e dei Napoletani. Pasolini dice dei Napoletani “in concreto”, come, cioè, lì “immagina”. E non è questo un controsenso dire “in concreto immaginare”, perché Pasolini rileva, già nella prima lettera sui “giovani infelici”, come la realtà sia espressione del sentimento, perché reale è ciò che “si prova”.
Posso affermare perciò che sia anche quello che ci mette alla prova, quello che sentiamo. Così che i giovani siano infelici non sarà un “dato”, ma quello che si “prova” a vederli preda del “fascismo dei consumi”, come Pasolini fa capire.
Allora i “Napoletani così come li immagino, sono così come li sento e come anche provo a sentirlo in un paese come l’Italia che li estranea ed è così diverso nella serie delle “scenette” raccontate nei “bassi” rispetto alle “scenette” della televisione.
Il Napoletano è “prova provata” di una diversità che vale a prova di quell’innocenza raccolta nella necessità di capirsi: “Coi Napoletano mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. Coi Napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me”.
A Napoli la realtà è come si prova, reale è quello che si può immaginare che sia. Così anche “Gennariello” è immaginato, lo stesso diminutivo “Gennariello” è “immaginato, perché in napoletano suono diversamente, come faceva osservare Erri de Luca. Si dice infatti “Gennarino” e Gennariniello”.
Così anche il nome “Gennariello” è come in italiano s’immagina che sia il diminutivo del nome.
“Coi Napoletani posso presumere d’insegnare qualcosa, perché essi sanno che la loro attenzione è un favore che essi mi fanno”. Insegnare è dunque uno scambio di favore. Il sapere che viene all’insegnare si pone tra questo scambio che è “pieno di allegria e di naturale affetto”.
Sentire, risentire, sentimento, risentimento, cessazione d’amore, come si legge nella prima delle Lettere, insomma l’affezione, per come si dà in affetto e afflizione, sono queste forme mutanti dell’animo a dire della realtà provata o della “parola provata” di Pasolini.
Fino a prova contraria, fino alla prova contraria o come fino alla “parola contraria”, per evocare ancora Erri de Luca, che certo non si può dire in continuità con Pasolini per quanto si possa andare immaginando una relazione, che finisce là dove sembra allacciarsi in una posizione che è scomoda, ma di una diversa scomodità, di linea diversa.
Scomodarsi è anche l’espressione di prendere una decisione che ti fa uscire dalla fila di posto dove ti trovi collocati. “Non ti scomodare per me o per questo” si dice per invitare a non avere premura o a fare cosa che disturbano quello di cui sei alle prese o perché stai comodamente al tuo posto.
“Non ti scomodare” è espressione anche ambivalente, perché indica anche un rimprovero, un risentimento verso chi fa qualcosa contro la sua voglia in quel momento.
Pasolini è un personaggio scomodo, come altri che lo sono e lo sono stati. È scomodo nel senso però che ti fa scomodare dal tuo posto, non ti lascia in pace. Ti scomoda, ti fa alzare dalla sedia, ti fa lasciare il posto di fila, ti fa prendere un impegno per una causa non presa.
Ti fa immaginare quello che c’è, mentre che è tanto più rassicurante non immaginarlo e lasciare che la “realtà” si presenti nel suo massiccio e macigno di dati irremovibile dell’”è così”.
“Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere” si legge subito prima l’immagine che lo spiega nel racconto istantaneo di quel giorno di un’effusione d’affetto con un napoletano che nel momento stesso di quell’effusione provò a sfilargli il portafoglio. Gliel’ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto”.
Lo scambio di sapere è uno scambio d’accrescimento di affetto. Non importa quello che sai, importa che sei tu a saperlo. Nell’insegnare e nell’apprendere ci si scambia quello che si è e s’immagina, ci si scambia quello che si prova a stare insieme.
II.
Pasolini come educatore, allora. Educa a questo insegnare e apprendere. Educa all’affezione. Educa ai sentimenti. Bisogna intendere anche in questo senso il motivo di critica più radicale che Pasolini muove al progresso, dichiarando che non corrisponde come tale allo sviluppo.
Uno scarto che deve essere ripreso e compreso. A leggere il testo di “Gennariello” si comprende ancora per il riferimento ai Napoletani che “non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia”. Nel sottolineare questo non cambiamento, Pasolini reclama di prestare attenzione al fatto che non vuole essere inteso come un “conservatore” ovvero come uno che rifiuta i tempi.
La prospettiva è un’altra, si potrebbe intenderla anche nei termini in cui Aristotele scriveva dei sentimenti che si esprimono con la voce e che sono comuni a tutti. È dunque questo comune che tiene insieme i diversi e i differenti che il progresso omologo, annulla, senza permettere che differenze e diversità, scambi e prove di sapere siano possibili.
È dunque in questa prospettiva che il “Napoletano” diventa il banco di scuola per una pedagogia che va bene oltre la localizzazione, per farsi espressione di una forma di pedagogia dello scambio, dove anche l’“imbroglio” diventa una prova, il mescolare, il darsi attenzione di sapere, senza imporre un sapere a un altro, ma scambiandolo, imbrogliandolo, al fondo resta l’affetto, il mischiarsi, il contagiarsi, lo stare insieme, l’intimità.
Dunque, immaginare, provare, sentire, ingarbugliare, imbrogliare, scambiare sapere, sentimento, affetto e affezioni, darsi il favore dell’attenzione sono queste le linee introdotte da Pasolini come educatore.
Pasolini spiega quindi così l’ambientazione napoletana del suo trattato pedagogico: Napoli è l’ultimo villaggio plebeo, dove non ci sono separazioni di classe.
Pedagogico è l’ambiente. Il luogo è educativo. Il luogo non è indifferente. È scelto. È immaginato. È provato. È pedagogico, educativo, fuori da ogni canone curriculare, prestabilito. Il luogo è Napoli. In questo luogo “La vitalità è sempre fonte di affetto e ingenuità”.
Il 1975 è stato un anno di boa alla storia dell’Italia del dopoguerra. Segnava un passaggio delle “lotte operaie” e di trasformazione delle alleanze dei partiti. Cresceva l’“utopia armata” che si sarebbe spenta subito all’inizio del decennio successivo.
Li chiamarono, e li chiamano, ancora “anni di piombo”, per chi li viveva e li ha vissuti furono anni di slancio, il Paese non era diviso come poi è stato, ogni giorno era una manifestazione di partecipazione, di studio, d’incontri.
Leggevamo tanto e riversavamo per le strade, nelle occupazioni di casa per chi non l’aveva, per l’autonomia dei territori sociali contro l’austerità che finiva appena allora, e che aveva lasciato apprendere un impegno nuovo su se stessi. Autoriduzioni, autonomie, contro ogni autoritarismo.
L’autonomia della pedagogia rientrava in questo corso. Appena poco dopo si chiudeva il ciclo di un decennio vissuto da soggetti molteplici.
Diventare soggetti sociali era insieme dare immagine di forme di vita sociali differenti, erano le forme del comune, dello stare insieme di donne in movimento, l’essere giovani era espressione di una soggettività sociale prima sconosciuta, c’era un’alleanza tra generazioni e generi vissuta anche in contrasto e proprio per tale di ricerca, d’invenzione di nuovi mondi.
Se fino ad allora il nuovo mondo era stato dell’esplorazione, in quegli anni il mondo nuovo era quello che s’immaginava della realtà. Era il mondo interiore, che si costruiva con le pagine dei libri, con gli incontri, i viaggi, i concerti, il ritrovarsi insieme.
La lezione di Pasolini era di quel rapporto di trasformazione del fuori e dell’interiore. Forse Pasolini più di ogni altro è stato chi ha portato fuori la propria intimità, la propria affezione.
Allora si diceva che il privato era politico, meglio si sarebbe detto che il sentimento è politico, l’affezione, l’intimità è politica, perché si è intimi nell’amicizia, nell’amore, del toccarsi, nello starsi accanto senza precipitare nella collocazione di giudizio e istituzionalizzazione di un gesto.
L’intimità è come il misto ed è la vita tutt’insieme, il ritrovarsi come una vita, la propria, nella vita impropria, che ha il volto dell’altro, l’immagine dell’animato.
III
Il “trattato pedagogico” di Pasolini continua allora così su questa lezione dell’immaginare ciò che c’è, di sollevare il reale all’immaginazione, di educare l’immaginario come si dice così di quel che il reale produce in termini di pubblico e opinione, che scade in pubblicità e consumismo.
Fu questa la critica più radicale che Pasolini muoveva all’idea di un progresso regressivo, senza sviluppo, perché faceva, e fa, regredire a uno stato di soggezione, di sottomissione ad un “fascismo” che operava nella forma di una microfisica del potere, attraverso il controllo delle scelte personale, fino ad arrivare a quella che oggi viviamo e che possiamo chiamare “democrazia reale” e meglio ancora “democrazia a consenso informato”, non partecipato.
Ognuno deve essere informato dei fatti, così è in termini giudiziari. Se non leggi e ti capita di subire una vessazione istituzionale sei tu stesso, ognuno, responsabile di non avere provveduto a leggere le informazioni.
Il consenso informato interviene e devia la stesa relazione di cura. Informato e non partecipato. Sei avvisato, avvistato. Ogni forma di potere interviene sulla vista, sulla percezione, su quel che devi vedere e percepire e sapere.
Il “trattato pedagogico” di Pasolini continua così sull’immagine di Gennariello, su come lo immagina e su come può essere egli stesso, che scrive, immaginato. Il testo prende lo stile della sceneggiatura. Pasolini procede come regista.
Era anche quello il tempo in cui fece abiura delle sue opere cinematografiche sulla “trilogia della vita”. Si tratta di un operare su una “critica della visione” su ciò che si percepisce e si viene a sapere. È questo il piano d’immanenza della sua pedagogia.
Gennariello immagine che sia come nell’oleografia dello scugnizzo napoletano, che però è al liceo, quindi è già un “miracolo”, una “eccezione”, ecco questa è l’espressione.
Dobbiamo allora intendere che dove si danno “eccezioni” non è possibile una pedagogia uniforme, “curriculuta” secondo “normalità” di regole. Dove non è possibile regola, nemmeno l’eccezione ne diventa la conferma.
Non si potrà tenere una scuola normale e nemmeno d’eccellenza, come si ripete. Dove c’è l’eccezione si può tenere una scuola eccezionale, una pedagogia d’eccezione.
Questa di Pasolini è tale ed è rivolta a se stesso nel mentre che è diretta a Gennariello o Concettina, perché l’uno e l’altro in una trasformazione affettiva che il testo lascia sorprendere da un rigo ad un altro, “Basta in tal caso che i tuoi occhi siano ridarelli: come del resto se anziché essere Gennariello tu fossi una Concettina”.
È una pedagogia delle “interruzioni”, dei ripensamenti, delle divagazioni e parentesi imposte dalle circostanze dove il soggetto insegnante divaga su stesso e come chi apprende può interrompere e divago su quel che immagina di qual che apprende.
Entrambi si presentano su quel che s’immaginano. La presentazione che Pasolini fa di sé è quella che ricava dall’opinione corrente, da quel che s’immagina che sia, e di fatto è in quel tempo: «uno scrittore-regista, molto “discusso e discutibile”, un comunista “poco ortodosso e che guadagna dei soldi col cinema”, un uomo “poco di buono, un po’ come D’Annunzio”».
Chissà oggi come sarebbe “immaginato” e chiamato Pasolini. Sarebbe questo un esercizio identificativo importante per capire quale figura possa esprimere la critica all’esistente in ordine alla visione delle cose.
Certo sarebbe comunque un “uomo ben informato delle visioni imposte sul consumo e dal consumismo”, di certo uno che allora metteva sullo stesso piano gli estremi, “l’extraparlamentare e la signora fascista”, “l’intellettuale di sinistra e il marchettaro”. Univa gli estremismi senza diventare centrista.
Usciva perciò dalle coordinate geometriche di destra e di sinistra e centro. Era la sua una pratica “eidetica” per una geometria dei sentimenti. La sua fu una pedagogia del non conforme, del non conformismo, e per essere anticonformista.
“Per queste ragioni sappi che negli insegnamenti che t’impartirò, non c’è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito.
Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in bruti e stupidi adoratori di feticci”.
È questo il messaggio che sta al fondo di ogni altro nella “pedagogia” di Pasolini. La sua è la rivolta contro il laicismo consumistico. Pasolini si sfila dalla linea di contrapposizioni tra laico e religioso, che attribuisce il sacro al secondo e il feticcio al primo.
È un insegnamento questo che aspetta ancora di essere compreso ed affermato, saputo. C’è una sacralità del laico, c’è una sacralità del popolare, intima della vita stessa. Una religiosità senza confessione.
Se solo si afferma una tale sacralità senza confessione, se solo si affida il sacro al laico, si comprende anche una religiosità della vita fuori dai confini di questa o quella territorializzazione dei sentimenti e della fede. Credo che sia l’intimità l’espressione del sacro della vita.
E dico “credo” perché di questa sacralità dell’intimità fa fede una religiosità senza religione, perché senza confessione. L’insegnamento comporta una tale esigente intimità e sacralità di nessuna preghiera che non sia l’ammirazione e lo stupore della vita che solo l’incontro ti fa vivere facendoti scoprire di essere una vita nella vita.
Facendo anche scoprire che l’ambiente non è semplicemente il dentro, il luogo, il paese in cui viviamo, non è semplicemente l’ambiente perché è vita e siamo vita, ogni vivente vive della vita che è nella vita che ha. Esistendo e vivendo. L’intimità è quando l’esistenza è vita e la vita esiste.
Quando l’una è vivibile e l’altra è immaginabile come mondo interiore. Una tale pedagogia è educazione ai sentimenti. Imparare a vedere. Rilke prende subito la mano intervenendo in ogni luogo in cui si parli di sentimenti per dire della sua pedagogia dell’imparare a “vedere dentro”.
“Sul sesso ci soffermeremo a lungo, sarà uno dei più importanti argomenti del nostro discorso … scandalizzeranno molto, al solito, i lettori Italia, sempre così pronti a togliere il saluto e a voltare le spalle al reprobo”.
Ecco, non deve sorprendere questo passaggio dal sacro al sesso, perché su questo si danno le confessioni e le religioni, su questo si dà il “vedere” come per quel che si può vedere e non, che è da vedere e non vedere, far vedere e non far vedere.
Tra ciò che è tollerato e non tollerato, sopportato e non, ciò che è «una contraddizione in termini. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che lo si “condanni”. La tolleranza è una forma di condanna più raffinata.» La colpa di essere diverso, resta identica per chi dice di tollerarla.
“Cani rabbiosi, stupidi, ciechi” si sono avventati su Pasolini, qualunque cosa dicesse prendendo posizione, che fosse sull’aborto e altro, “Cani rabbiosi, stupidi, ciechi”, ancora una espressione del vedere, la rabbia, la stupidità, la cecità di chi ha occhi per vedere solo ciò che gli si dice che sia confessabile a vedersi. Quanti vedevano solo la sua “diversità” senza sentire, senza ascoltare, senza vedersi, senza vedere dentro.
IV
“Bisogna avere la forza di una critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile. Chi accetta realisticamente una trasformazione che è regresso e degradazione, vuol dire che non ama chi subisce tale regresso e tale degradazione, cioè gli uomini in carne ed ossa che lo circondano”.
È un insegnamento, è l’aforisma del maestro, la definizione di un limite. È è ancora una volta un “sentimento”. Di questo sentimento è anche il “sapere” che ci sono quanti non voglio sapere o dicono di non sapere o fingono di non sapere.
È questa la “colpa” che Pasolini attribuisce allora ai democristiani delle stragi e ora a chiunque sia al potere e non vede, perché fa finta di non vedere o vede solo da una parte e finge ancora, perché la finzione è il velo che nasconde la colpa del potere.
La colpa non è però solo del potere che finge di non sapere, perché è colpa anche il non fare sapere.
“Il primo dovere degli intellettuali, oggi, sarebbe quello di insegnare alla gente a non ascoltare le mostruosità linguistiche dei potenti democristiani (dei politici dei partiti, oggi diremmo), a urlare, a ogni parola, di ribrezzo e di condanna … rintuzzare tutte le menzogne che attraverso la stampa e soprattutto la televisione inondano e soffocano quel corpo del resto inerte che è l’Italia”.
Bisognerebbe parlare napoletano con Gennariello, parlare nella lingua madre di ognuno e non quella dei potenti, del potere. L’Italiano è tale, ma è anche una lingua letteraria, la sua nascita è letteraria.
Bisogna allora parlare la lingua della letteratura, non quella del governo dei potenti. È un’altra lingua, non tecnicistica, non farmaceutica, ma dialogica, che fa capire senza nascondere in espressioni incomprensibile quello che non si vuole far comprendere.
V.
Ecco che a parlare sono le cose che circondano. È questo adesso il passaggio pedagogico che dà misura dell’opera d’insegnamento. Le cose intorno ci parlano. Diremmo l’ambiente, ma nel modo in cui intendiamo tutto quanto è intorno a noi e dentro, accanto e insieme siamo.
“Il loro linguaggio è inarticolato e assolutamente rigido: dunque inarticolato e rigido è lo spirito del tuo apprendimento e delle opinioni non verbali che in te, attraverso quell’apprendimento, si sono formate. Su questo siamo due estranei, che nulla può avvicinare”.
È il punto di volta di questo trattato di pedagogia. Le cose parlano attraverso noi che le parliamo e le parole che c’insegnano ci segnano, diventiamo noi stessi le cose che ci circondano, siamo come loro messaggeri, siamo come loro vassoio. Ovunque andiamo ce le portiamo addosso, dentro.
La nostra estraneità è nel portarci appresso le cose che circondano, così il napoletano si porterà quell’incomprensibile parlare del caffé e della macchinetta napoletana a uno che ci ascolterà estraneità, basito e che ci lasciare estranei e basiti al parlare le cose che lo hanno circondato ed educato ad essere com’è.
“Siamo due estranei: lo dicono le tazze da tè”. E qui Pasolini non poteva scrivere nulla di più estraneo al suo Gennariello che di tazze da tè non ne avrà mai avute in casa e che conosce solo quelle da caffè, viste e vissute in casa o al bar quando faceva servizio per portare “qualcosa di soldi” a casa.
Non “i soldi”, ma “qualcosa di soldi” come ripete il napoletano, perché quello che si guadagna a fare servizio al bar è qualcosa dei soldi, ma non sono soldi, perché sono pochi per essere soldi, sono ridotti. Poco, qualcosa, appunto. “Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide”.
Sono dunque le cose che ci dividono e cambiano, le cose ci separano e segnano il tempo del mondo. Non cambia il linguaggio. Cambiano “le cose stesse”, quelle che diciamo che sono. Sono le cose che cambiano il mondo. Sono le cose che ci cambiano. Mutano il nostro modo di vedere, la nostra stessa immaginazione.
Così Pasolini scrive di come l’immagine delle tazzine da tè gli era venuta dal suo scenografo che gli aveva presentato per il film Salò o le 120 giornate di Sodoma. Erano tazzine degli anni ’30 ’40, che perciò gli portavano l’angoscia di quel tempo.
Tuttavia c’era qualcosa che le riportava di gioia, ed era che quelle tazzine parlavano delle mani di chi le aveva fabbricate, le mani degli artigiani. Ecco le cose un tempo parlavano delle mani di chi le costruiva, raccontavano degli uomini, degli artigiani dicevano del mondo e del suo racconto, di quel che si vedeva tutt’intorno.
“La verità che dobbiamo dirci è questa: la nuova produzione delle cose, cioè il cambiamento delle cose da me a te un insegnamento originario e profondo che io non posso comprendere (anche perché non voglio comprendere).
E ciò implica una estraneità tra noi due che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso padri dai figli”.
Le cose dunque ci separano. I rapporti tra generazioni, le separazioni di generazione sono fatte dalle cose che consumiamo. Qui la critica del consumismo non riferisce alle cose, ma al modo di produzione e di consumo. La separazione non importa più quella tra generazioni, perché è delle cose.
Siamo noi stessi, personalmente, nel ciclo di produzione delle cose. Ci consumiamo. Così cambia anche il linguaggio e un’espressione come “risorse umane” indica esattamente lo stato di riduzione a “cose”. Anche la precarietà e l’azione a termine indica piuttosto il consumo. Siamo a tempo di consumo. Consumati noi stessi.
VI.
“La rivoluzione ha la pigrizia del sole che splende sui prati spelacchiati, sulle baracche, sui palazzoni scrostati”. La rivoluzione non cambia il tempo, lo congiunge. Non lo spezza in passato presente futuro, lo rigira, lo conserva tutt’insieme.
Questo il messaggio che viene dal 1 Maggio di questa lezione. Bisogna immaginare quel giorno in cui fu scritto. Un giorno di manifestazione. Quando si affaccia l’idea di un “futuro”, quando ancora ripetiamo ora che non c’è futuro, che le giovani generazioni sono senza futuro, nomiamo il consumo, che è immediato.
Ci consumiamo noi stessi al momento, a tempo determinato, anche i nostri legami sono tali. «Il futuro è imminente e apocalittico.» È percepito per un verso come assente e per un altro verso del tutto differente da com’è adesso il presente che viviamo.
Una strana visione del futuro, che toglie di mezzo la rivoluzione e la conservazione così come toglie di mezzo l’essere di sinistra o di destra. Nel momento in cui parliamo di futuro stiamo nominando quello che non c’è e non può essere, stiamo semplicemente immaginando che non si immaginare, non c’è.
Quello che manca non è il futuro, manca il racconto del presente. Questo presente non è raccontabile, le cose e i giorni non sono raccontabile. Il futuro è questa strana parola che si compone di un passato remoto, “fu”, è di una desinenza verbale iterativa, in corso.
“Futuro” è ciò che racconteremo come passato del presente adesso. Se non c’è futuro è perché questo presente non è raccontabile, ha perduto il suo passato, ha perduto il tempo che trascorre come il sole pigro sulle strade delle periferie.
Pasolini lascia comprendere queste cose, lascia anche intendere è “sapere” è comprendere e che ciò che non vogliamo comprendere, perciò non vogliamo farci prendere, non lo vogliamo nemmeno sapere. Pasolini lascia intendere che il sapere si partecipa, coinvolge, si avverte dentro.
La sua lezione guarda alle periferie e al centro delle città. Fa capire come la campagna ha perduto il suo racconto, il suo passato, quello che ci si passa nel viverla. Le stesse periferie hanno perduto quel senso di riscatto, di costruzione, di rivoluzione che le faceva rivolgere al proprio racconto. `
I figli sono strappati alla somiglianza coi padri e proiettati verso un domani che pur conservando i problemi e la miseria di oggi, non può esserne qualitativamente del tutto diverso». È il punto di volta più difficile da comprendere per Gennariello. La somiglianza.
Si è perduta la somiglianza. Si è perduto la trasmissione nei corpi dell’anima, la generazione. La trasmigrazione dei corpi nell’anima. La trasmigrazione di una vita nella vita. I migranti possono insegnare adesso una trasmigrazione nuova di una vita nella vita. Senza passato, senza futuro.
Il compito che ci impegna è la costruzione del presente, quello di un tempo comune. Ci aspetta forse una nuova immagine del tempo, perciò una nuova immaginazione, ci aspetta di immaginare la realtà come mai abbiamo immaginato di vedere.
VII. 8 maggio 1975 / 27 ottobre 2015
Consumismo e comunismo, Bologna ne è stata l’espressione, in quegli anni ’70. Era una speranza e fu una disperazione per Pasolini che l’aveva abitata e vissuta col sentimento di un tempo perduto senza una ricerca che potesse farlo ritornare. Pasolini fa parlare Bologna due volte, a Gennariello e lui stesso.
Dice cose diverse. Gennariello penserà di emigrarvi, Pasolini di non più ritornarvi. Ed ecco di nuovo il tempo, quello che non ritorno è di quando non vogliamo più ritornare dove siamo stati perché è cambiato nelle cose e nelle parole che le esprimono.
In parallelo corre però un altro tempo, quello del futuro per chi quel luogo non lo ha vissuto. Sono adesso allo specchio Pasolini e Gennariello, sono nella stessa relazione di un docente a scuola e i suoi studenti. Non si capiscono, perché uno ha perduto il passato e l’altro non ha futuro.
Non sanno l’uno e gli altri che possono cambiare il mondo e se stessi se solo ritrovano il presente nella somiglianza del tempo, perché il tempo non cambia se non si somiglia, giocando al riflesso di un’immagine nell’altra di un’immaginazione diversa, altra.
Un gioco di specchi interiori, gli specchi opachi della somiglianza, perciò dei corpi, se solo sono sottratti dall’essere “risorse umane” e “prodotti di formazione”, “informatizzati, formattati.
Pasolini su questo è stato recalcitrante. Non ha forse colto la forza della sua diversità, non si è messo in accordo, non ha voluto essere d’accordo, sarebbe stato un buon inizio.
Noi non abbiamo accettato allora e non accettiamo ora quel che segue del suo disaccordo coi giovani di allora che sarebbe come per i giovani di adesso. Giovani non più giovani si può anche affermare, perché l’età non indica più un tempo dell’età.
Le generazioni si sono scambiate, sbiadite, confuse. L’età è diventata anch’essa precaria e migrante. Il consumismo e il comunismo si sono perduti in un solo vortice. I corpi si consumano, il lavoro non si fa, si è strumenti di lavoro, non ci sono più strumenti di lavoro.
Il corpo proprio è diventato strumento che si utilizza, si prende e si lascia come cosa, appoggiandola da qualche parte e dimenticando quale, lasciandolo da nessuna parte.
VIII
Quello che i ragazzi insegnano ai ragazzi in un conformismo di età è la «novità», questa estranea giovani da adulti e questa crea il conformismo orizzontale tra i più giovani. Gennariello ha quindici anni, quelli della “persuasione della novità”.
Chi insegna racconta i propri insegnamenti, li rappresenta. Alla fine ci si accorge che gli effetti poi non cambiano. Si afferma in un modo o in un altro quell’autorità che rende conformi.
C’è una implicita equivalenza, che Pasolini, lascia emergere tra fascismo e conformismo, perché l’uno è l’altro sono il piegarsi all’obbedienza di quel che si fa e si dice, meglio, di quel che si deve fare e si deve dire.
Come sottrarsi allora al conformismo e al consumismo? Come poter essere non conforme e non consumarsi. Il consumismo è espressione di un tempo che si perde su se stesso, non resta. Il conformismo è di un’identità che non è la propria. Come allora contrastare il senza il proprio tempo e senza la propria identità?
Ogni trattato pedagogico comincia e finisce su questo punto, come essere se stessi e come restare. Si può affermare che una tale pedagogia non esiste, la formattazione nelle scuole e nelle aziende è tale che si svolge su consenso informato, come la democrazia e ogni relazione farmaceutica che riguarda diritti e prelievi.
IX
Ci sono di quelli “obbedienti” e ci sono i «disobbedienti, cioè i pochi estremisti sopravvissuti, i disadattati, i devianti e infine — questi rarissimi — i “colti”». Le varianti fondamentali di questi tipi sono i ragazzi borghesi e quelli operai, i ragazzi del Nord e quelli del Sud.
Quest’ultima variante sorprende. Emergono tuttavia in questo elenco i “nuovi soggetti” sociali, quelli che saranno di riferimenti anche per Foucault, là dove si danno elementi, soggetti, forme di vita espulse e tenute fuori della società dell’ordine del discorso conforme, fuori perciò dall’ordine del consenso informato.
C’è un passaggio difficile andare tra “obbedienti” e “disobbedienti”. Non si comprende. Si resta recalcitranti a capire. Pasolini fa di questi passaggi, intrusivo delle parti più oscure del pensare. I primi, i conformisti obbedienti, sono quelli «destinati a esser morti».
Sono i «sopravvissuti», gli «in più». È un’indicazione questa che mostra come l’ordine del discorso giuridico sociale sia segnato dalla “conta” economica. Il surplus di umanità, l’eccedenza, sono gli “esuberi”, quelli che non rientrano nei numeri dell’ordine economico.
È la stessa distribuzione numerica dei migranti. Gli “in più” sono anche i figli non desiderati dai genitori, i non amati, i superflui, quelli di cui non c’era e non c’è bisogno. I non amati.
Quelli che arrivano senza benedizione, i non benedetti, perché il loro arrivo non produce beni in termini di ricchezza e consumo. Sono i tenuti in vita con mezzi artificiali, i destinati morti, i sopravvissuti. Un esubero di vita che va tagliata come l’erba e che fuoriesce dall’ordine.
Non manca tra le righe, in parentesi, il richiamo alle prime pagine del libro di Ivan Illich, La convivialità, tradotto appena l’anno prima, 1974, in italiano.
Anche in quel testo si parla dell’effetto del progresso della scienza e della tecnologia e di uno scarto tra ricchezza e povertà che segna il passaggio dell’economia dai politici ai finanziari, ai petrolieri allora.
La convivialità era nel libro di Illicch l’espressione di un’economia corrispondente al una forma sociale della comunità, come potremmo intendere quella in cui gli individui si fanno possessori degli strumenti di produzione di beni in comune.
Le tesi di quel libro sono quelle che si ritrovano nell’espressione di questi anni della decrescita. Pasolini leggeva in quel libro l’avanzare di un “progresso” dallo “sviluppo” pericoloso giusto in termini di una “crescita” che favoriva l’accumulo della ricchezza in poche mani, quelle del “Petrolio”, a discapito di un aumento della popolazione in “esubero”, in “di più” rispetto alle esigenze del sistema di produzione capitalistica.
Le analisi di Pasolini potevano avere riferimento a quelle più remote di Ricardo, non certo marxiane. Guardavano agli effetti dello stato di cose esistenti piuttosto che alle cause contro un modello economico che, ancora oggi, intende lo sviluppo e la crescita in termini di consumo e non di qualità della vita.
Le stesse esigenze di Diritto, quella che mi piace chiamare la “farmacia dei diritti” è riferita all’economia dei consumi. Si parla di diritti di consumo per le merci che obbediscono a dei requisiti “biologici” e di “lavorazione”, che segnano piuttosto i confini, la territorializzazione, del mercato della globalizzazione.
Sono gli stessi confini annunciati con l’allarme delle pandemie e del ritiro dal mercato di merci non “legittimate” o “pericolose”, come di carni provenienti da certi paesi invece che da altri.
Tutto questo in nome del “consumo” che piega la politica, i politici, le scelte di governo ad un piano di mercato ristretto, definito, dal potere finanziario e perciò dagli scambi di borsa.
L’educazione che Pasolini espone a Gennariello è sociale, non riguarda l’istruzione e la formazione, si riferisce a come essere persona in una società di personaggi che si definiscono sul piano sociologico come “obbedienti” e “dissidenti”, “fascisti” e “consumisti”, “conformisti” e comunisti, secondo ruoli che appaiono bene precisi, ma che sono invece indistinguibili gli uni dagli altri, insistono sullo stesso piano.
È stato anche questo che di Pasolini gli “extraparlamentari” di allora, diversamente dai “benpensanti” dei partiti politici non hanno voluto capire, perché non erano comprensibili ad una volontà di cambiamento che andava in una direzione politica del cambiamento dell’esistente.
Pasolini non era tollerato perché non era intollerabile. Al fondo c’era un’intima convergenza che è ancora più difficile indicare ed esprimere adesso.
X
Gennariello figura anch’egli tra “i di più”, tra i “destinati a morire”, tra i “sopravvissuti”, solo che è «adorabile».
Bisogna intendere ora questo passaggio che nelle pagine del libro viene espressamente dichiarato «che ti descriverò in questa sezione della nostra “Pedagogia”» introducendo “un elenco incompleto (ma se sarà necessario, lo aggiorneremo in qualsiasi momento sembri opportuno”.
Questo momento e questa necessità arriva fin a qui dove scriviamo adesso, è un’esigenza, che reclama forse un nuovo elenco o nessuno, dal momento che cade in un “indistinguibilità” che diventa la cifra finale del conto e la difficoltà di comprendere il racconto di Pasolini una prospettiva di forma sociale comune ovvero di una comunità sociale per la quale continuare a ingaggiare quella lotta di testimonianza che ereditiamo dall’ultimo libro incompiuto, Petrolio.
Quelle distinzioni di categorie che scivolano l’una sull’altra rendendosi indistinguibili perché cadono tutte insieme in quel “in più”, di esuberi e di eccessi, si semplificano in “bravi” e “cojoni”, gli uni che non servono a niente, e sono infelici e gli altri che si godono il consumismo della felicità a buon mercato.
I “bravi” sono però anche i protervi e i padroni. La distinzione, che resta tale, è la cultura. “È il possesso culturale del mondo che dà felicità. Non lasciarti tentare dai campioni dell’infelicità, della mutria dei cretini, della società ignorante”.
Si capisce da questo fine, la felicità, come il “trattato pedagogico” sia esplicitamente un’Etica. C’è come la rabbia del bene in ogni libro di Etica, che finisce sempre nella gioia come sentimento della felicità.
I libri di Etica sono tutti dedicati ai figli, da Aristotele a Savater, da Cicerone a Paolo, che scrive le lettere di Etica al figlio o Epicuro che scrive ad un figlio adottivo, chi scrive ad un allievo, non a tutti, ma a quello che sente, come qui Pasolini sente Gennariello.
In fondo Le lettere Luterane sono scritte da un “padre”, che si sente tale, per età di generazione, ma che è senza figlio perché figlio egli stesso “in più”, in “esubero” in conflitto col padre e con la società padrona e sessista.
L’insistenza alla paternità di Pasolini, che attraversa le Lettere Luterane è una paternità dell’opera, perciò generazionale. È quella di un padre contro lo stesso conflitto generazionale che resta irrisolvibile fino a quando ci sarà un futuro senza passato di mercato e consumo del tempo che lascia il presente come vuoto.
Bisogna immaginare la realtà per poterla trasformare. Occorre ogni volta vedere quel che manca in quello che c’è perché quello che c’è sia veramente quello che è, dando a quel vero essere per cui si vive il valore e il senso della vita stessa.
Credo sia questo poi l’effetto che viene dall’immaginare la realtà, del portarla al grado dell’immaginazione e perciò a livello della realtà interiore e perciò dell’utopia dell’intimità.
La realtà che viene così all’interiorità è la vita com’è la vita, fuori dalla proprietà, impropria, un possesso senza proprietà, quella di cui siamo in possesso e che dobbiamo perciò risponderne nella restituzione, restituendo l’operare che la vive. La facilità del fare non è la felicità dell’operare.
Dal mercato dei facilitatori solo l’arte, la cultura, l’operare ci può “salvare”, tenercene lontano. La felicità della cultura è difficile. E di felicitatori, non di facilitatore, c’è bisogno per essere felici. E sono i più difficili, quelli più difficili da seguire, ma sono di quelli, come Pasolini, che cercano l’etica fuori del moralismo, l’operare e non il fare.
XI
È difficile. Una questione anche estetica, che provoca il bello. L’arte cinematografica di Pasolini opera su questo versante. È contro il “farsi brutto” del bello, contro la moda che attribuisce ancora i più giovani di farsi brutti, di vestire brutto, di truccarsi, tatuarsi anche di brutto. Pasolini è proprio difficile.
«Tra i “destinati a esser morti” ci sono esseri adorabili per lo meno come te, così vistosamente destinato alla vita.
Se ho polemizzato con particolare veemenza è Gennariello come lui lo immagina, per quanto sia del Sud e proprio perché del Sud, è difficile capire questo giro, ma è nel capovolgimento che ogni etica e ogni pedagogia della vita reclama al mondo così com’è, anche al Sud così com’è, anche al Nord, perché sono queste distinzioni a confondere l’indistinguibile.
A confondere perciò quello che non si distingue nell’indistinzione del mercato. «Se ho polemizzato con particolare violenza contro gli insegnamenti che ti impartiscono i “destinatari a esser morti”, è perché ho preso questa categoria a simbolo della media: media che t’insegna, appunto, queste stesse cose, e senza quel tanto di disperato che le corregge, le giustifica, le rende umane».
C’è quell’“adorabile” che fa salire all’immagine la realtà della vita che viene dalla sua immaginazione. E la vita è adorabile. È questa che solleva l’indistinguibile al grado etico, non la vita com’è, ma come viene la vita all’intimità del mondo interiore.
Pasolini si dichiara fuori e contro ogni classificazione, ogni stereotipo fedele alla copia della realtà di mercato del consumo. Resta un individuo, letteralmente “en dia duoin”, come apprendevamo a scuola, “uno attraverso due”, uno che è attraverso due e non è né l’uno né l’altro.
Come diceva Nietzsche in Ecce Homo, avvertendo chi leggeva a non prenderlo per un altro. Né questo né quello allora. Individuo, ecce homo. Nessuno. Nessun altro. Uno che vive. Una vita nella vita. Proprio e improprio come si è a vivere. Un possesso senza proprietà. Un possidente non un proprietario. Un posseduto senza padrone.
Chi è Pasolini adesso, chi lo incontra per strada adesso, come sentirebbe rimbalzare sui muri, su altri corpi la sua voce, con “quel tanto di disperato che la corregge” nel misto del suo dolce friulano del suo italiano letterario? Come suona in altre voci, in napoletano, in Gennariello adesso che è arrivato fino a noi, qui, che lo leggiamo?
È certo strano quel suo chiamare indistinguibile il gesto del conformista e quello del brigadista del tempo, quel suo dichiarare l’extraparlamentare indistinguibile da ogni altro “in più” destinato alla morte, al taglio degli esuberi, alla mancanza di futuro.
«Dunque: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi … distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità questa aggravata dalla totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell’abbandono “selvaggio” delle campagne, responsabilità dell’esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori».
XII
Irrappresentabilità della politica o manifesto dell’antipolitica. Chi legge Pasolini si trova a fare i conti con gli “indignati” e con gli “antipolitici”. Il suo è un nichilismo attivo. “ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita”.
Sono i versi del primo canto a Le ceneri di Gramsci. Finisce così ogni profondo e ingenuo sforzo di rifare la vita? Ed è profondo e ingenuo? Ogni ingenuità è profonda. Ingenuamente ci si sforza a rifare la vita.
Perché la vita reclama questa profonda ingenuità, perché la vita è ingenua e profonda. Bisogna farsi profondi e ingenui per rifare la vita. Ed è questa profondità e ingenuità che può rifare ogni volta insieme, in molti, in polis, in politica la vita. In comune.
Al fondo di ogni volta di Pasolini, a voler pronunciare il suo nome così in tono di voce, c’è questa profonda ingenuità di rifare la vita. Lo si sente per strada, nelle occupazioni degli spazi lasciati in abbandono dell’economia industriale, luoghi ridotti a ruderi di un tempo non merita certo archeologia.
Lo si sente nella indistinguibilità che Pasolini ripeterebbe ad ogni voce che si appella all’antipolitica o alla politica. Bisogna comprendere questa indistinguibilità che rende ingenua ogni profondità di vita, perché è facile, perché facilita, perché sconforta, perché non felice né gioiosa.
La politica non manca al richiamo dell’educazione ai sentimenti. La politica è chiamata ogni volta a immaginare la realtà, a farsi intimità. Vicina. Ancora adesso che siamo in una democrazia a consenso informato, non partecipata. Ora che siamo alla formattizzazione, alla relazione informata e informale.
L’educazione è ai sentimenti che chiama la politica. Ogni sentimento è un legame, non ogni legame è però un sentimento. Quello della politica è un sentimento, quello che nella sua Metafisica dei costumi il filosofo chiama il doppio principio, indistinguibile perché, questa volta, inseparabile tra “la realizzazione di sé e la felicità degli altri”.
Una strana inseparabilità, che dice come la realizzazione di sé che non rende felici gli altri, sia solo egoismo e proprietà, quella realizzazione di sé che rende felice anche gli altri è tale perché in comune.
È farsi comune, rendere comune ciò che si opera in politica come in arte, in ogni quale che sia opera che è tale, opera, solo se comune. Si tratta di rendere comune la propria vita. Fare della propria vita un’opera. A noi di Pasolini resta che è comune.
Ci accomuna nell’indistinguibilità di quel che leggiamo del suo essere diventato per noi Pasolini, il nome di un sentimento quello della profonda ingenuità di rifare la vita.
Potrebbe ripeterci che non è né questo né quello, e che non si lascia distinguere se sia di una posizione di partito o di un altro.
Senza partito. Dovremmo immaginarla forse così la realtà per una politica senza politica, per un partito senza partito. Rifarla la vita di può, forse, ingenuamente fuori dal clamore gridato dell’antipolitica e lontano dal silenzio assordante dei politici che nascondono nel chiasso delle puntate dei salotti televisivi e dei tele giornali e dei carta giornali di copertura.
Quando la politica ritrova la sua profonda ingenuità scrive di nuove lettere come quelle di Gramsci ucciso dal carcere o quelle di Pasolini assassinato in un campo di reclusione urbana.
L’ingenuità più profonda è quella di fare della propria vita ciò che non ti appartiene, ma è comune, non una vita comune, ma in comune. Essere una vita nella vita. Non c’è nulla di meno profondo e meno ingenuo di una vita comune, qualunque.
Diventa ingenua e profonda quella vita che fa del comune la vita che appartiene a ognuno. Il comune allora non è della rinuncia, ma del rifiuto di quel che è banale come il male.
Vale per il nome Pasolini lo stesso suono di un altro nome, quello di Camus come di altri ancora che hanno ci hanno lasciato l’impegno di un rifiuto senza rinuncia della vita. Di un rifiuto dell’esistente senza rinunciare a ciò che il reale ci fa immaginare come educazione ai sentimenti del mondo in comune.
Come la vita è adorabile. Come chi s’incontra con meraviglia e si ama. Il mondo non cambia a poco a poco, il mondo cambia a uno a uno.
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* Lettere Luterane è il titolo assegnato dalla casa editrice Einaudi alla raccolta di articoli che Pasolini pubblicava sul Corriere della sera. Furono il seguito della raccolta degli Scritti corsari. La prima parte delle Lettere Luterane riporta il trattato pedagogico che Pasolini indirizza a Gennariello, immaginario giovane napoletano. Il trattato non fu portato a termine. Era l’anno 1975 l’ultimo della vita di Pasolini che moriva il 2 novembre. Fu quello un anno di passaggio, segnato come “anni di piombo”, espressione che fa perdere tutta l’inquietudine e la bellezza che ogni anno porta con sé. Quello fu l’anno della fine della guerra in Vietnam, fu l’anno delle BR, della Legge reale, del compromesso storico, delle aggressioni, delle manifestazioni, del sequestro di un magistrato, anni che abbiamo vissuto in manifestazioni e in assemblee continue per lunghi dieci anni che se non sconvolsero il mondo già da sempre sconvolto, ha fatto da piazza d’incontro di tanti, tantissimi, miti e non. Passavo dai libri ai quartieri, dalle letture ai dopo scuola, alle assemblee e occupazioni di piccole fabbriche. Furono gli anni delle autonomie, gli anni extraparlamentari. Pasolini poteva affermare che c’era un dentro del Palazzo e un fuori del Potere a marcare uno svuotamento istituzionale arrivato fino ai nostri giorni. Erano gli anni di una scuola che non c’è più, di una comunità di giovani che si conoscevano lungo tutto il Paese e l’Europa, tutti conoscevamo tutti perché non c’era bisogno di presentazioni e riconoscimenti, eravamo ognuno riconoscente all’altro della gioia di vivere. Era l’anno del femminismo, delle danze per strade, della comunità vagante, dove ci comprendevamo tutti anche da opposte ideologie perché sapevamo che erano la scorza di una sola passione che aveva bisogno di tradursi in sentimento, in un’educazione sentimentale per una comunità sociale di una società comune.