di Mauro Mercatanti
Io non sono stato né un no-expo né un expottimista. Sono semplicemente uno che abitava a Milano quando ‘sto popò di astronave è atterrata nei pressi di Rho, con la manovra un po’ azzardata e l’aria un po’ trafelata di chi sta facendo tardi a un appuntamento importante e quindi parcheggia un po’ alla cazzo, nel primo posto che trova libero, dicendosi che “sì ok, magari come parcheggio non è proprio il massimo, ma in fondo non do fastidio a nessuno e quindi speriamo che i ghisa chiudano un occhio”. Sono uno che è andato anche a vederla, questa astRHOnave. Era una creatura fantasmagorica, con grandi padiglioni, lunghe code e una bocca smisurata, con un pacchianissimo albero maestro (curiosamente sponsorizzato da Brescia Qualcosa) che alternava sputacchi d’acqua e lucine colorate senza motivo apparente.
Avete presente quei bagaglini di plastica che ti lasciano sul tavolo i sedicenti sordi, con allegato un bigliettino che ti spiega la situazione e ti chiede un obolo, che poi se li vengono a riprendere, nel non impossibile caso tu decida di non sentire (a tua volta) il bisogno di acquistarli?
Ecco, per me questo è stato Expo: un pachidermico gadgettone, sostanzialmente inutile, lasciatoci sul tavolo per 6 mesi da un gigantesco sordo in cerca di soldi, che poi se l’è ripreso e portato via, senza dire nulla né pretendere alcunché.
E proprio come nel caso di questo piccolo format sociale con questuanti sordi che prima ti lasciano e poi si riprendono la loro bigiotteria, anche nel caso di quest’altro enorme format mondiale che ogni 4 anni plana in qualche angolo del globo per esporre e poi portarsi via la chincaglieria, io devo confessarvi che non ho particolari opinioni da esprimere né sentenze da emettere. Mi limito a prendere atto dell’accaduto, senza farmi troppe domande.
Tanto per capirci meglio, fatemela dire così: saranno veramente sordi quelli che ci lasciano in visione quei cosi per 3 minuti e poi se li portano via? Boh, non lo so.
Allo stesso modo: saranno veramente interessati a “nutrire il pianeta” questi che ci hanno lasciato in visione ‘sti padiglioni per 6 mesi e poi se li sono portati via? Boh, non lo so.
Se dunque, con una pistola puntata alla tempia, fossi costretto a esprimere un mio giudizio spassionato sull’incontro ravvicinato con questa bizzarra astronave con le lucine colorate, tra Expo Sì ed Expo No, sarei per un più salomonico Expo Boh.
Nel senso che non ho proprio capito benissimo l’utilità del tutto ma nemmeno posso negare che sia stato piuttosto divertente. Perché, rega’, diciamoci la verità: i 6 mesi di permanenza di questo carrozzone psychogastronomico sono stati spassosi a livelli epocali: tra black bloc invasati e armati di mazze che evaporano in una nuvola rossa (in una delle molte feritoie della notte) e white bloc invasati e armati di spugnette che vanno a cancellare scritte e graffiti dai muri (uno lo hanno fermato in Santa Maria delle Grazie che fissava con aria di sfida il Cenacolo Vinciano, brandendo una Spontex mentre salmodiava #nessunotocchimilano); tra un pugno di lumini in Darsena che bloccano la città manco fossero un branco di tori a Pamplona e mitologiche file davanti al Padiglione Giappone (a proposito: ma davvero ci sarà stata gente che ha fatto 10 ore per entrare in quell’enorme prefabbricato o son solo leggende metropolitane?); tra piazzali spruzzati di bianco a simulare la nevicata del 1914 e improbabili palizzate piazzate davanti al Castello Sforzesco a simboleggiare non si sa bene cosa; con statue di cartapesta brutte come la fame sparse un po’ ovunque e un branco di cani lupo gialli piazzati sul tetto dei Bastioni di Porta Venezia a simboleggiare i guardiani del cibo (e certo, chi di noi non si rivolgerebbe a un branco di lupi per fare la guardia alle vettovaglie?), e poi la bellissima Darsena (per dirla come la dice una mia amica, “un po’ Parigi, un po’ Boston, un po’ Amsterdam, un po’ Vodafone”), il Mercato Metropolitano, la Metropolitana del Gorilla Lilla, i boschi verticali, i lampioni orizzontali e – nel casino generale – il progetto di riaprire tutti i navigli con un enorme apriscatole, progettato da Cattelan (il presentatore, non l’altro). Insomma, son stati 6 mesi di pazzia conclamata, in cui ognuno ha dato di testa un po’ a modo suo, chi per parlare per forza bene di tutto e chi per parlare per forza male di tutto.
Nella foto: io che guardo arrivare l’AstRHOnave, ma anche io che la guardo andare via.
E qui sta il succo del discorso che mi premeva affrontare.
Pare infatti che, insieme all’astRHOnave, stia andando scomparendo dall’orizzonte dello scibile umano anche la vecchia e rassicurante categoria dell’oggettività.
Il successo o l’insuccesso di Expo non saranno mai proclamati con la forza tacitante di un qualche parametro oggettivo, universalmente riconosciuto.
No, Expo – come ormai molti altri piccoli e grandi fenomeni del nostro tempo ballerino – è destinato ad essere un accadimento inscindibile dall’opinione che uno se n’è fatto.
Non sapremo mai se è andato bene, se è andato male o se è andato così così.
O meglio: è andato sia bene che male a seconda di come te la vuoi raccontare (no, “così così” non è possibile, è una categoria che è stata abrogata dal soverchiante bisogno di polarizzazione) e nessuno potrà cambiare il segno che gli hai messo davanti.
Se te ne sei fatto una buona opinione (o, più semplicemente, ti hanno detto che se non ne hai una buona opinione non potrai fare il Sindaco di Milano) la manterrai anche se dovesse venire fuori che i numeri di Expo sono stati fallimentari e che hanno prodotto un buco nei conti profondo come un pensiero di Pasolini.
Se, viceversa, ne hai una pessima opinione (o, più semplicemente, sei stato 10 ore in fila per un tocco di sashimi), continuerai ad averla anche se Giacomo Biraghi ti offrisse i soldi che ha guadagnato per parlarne bene.
Non so davvero se sia un bel posto quello dove neanche col piede di porco si riescono più a separare i fatti dalle opinioni. A me, devo dire, sta cosa mi mette un po’ di disagio addosso.
Come quando cerco di capire cosa ne pensa la gente di un film che mi interessa, leggendo i commenti su facebook: c’è quello che lo definisce un capolavoro senza precedenti e quell’altro che maledice il momento in cui ha deciso di andare a vederlo.
O come quando cerchi di farti un’idea di un posto su Tripadvisor e resti completamente frastornato dal continuo altalenare tra i picchi estasiati di un “Eccellente” e il profondo disgusto di un “Pessimo”.
Sembra quasi che la gente non abbia più gli stessi parametri e che non sia pertanto più possibile misurare le cose in modo univoco. Solo esaltarle, dalla curva nord, o mandarle affanculo, dalla curva sud. E in fondo perché mai parametrare, perché misurare, perché fare lo sforzo di verificare, quando si può comodamente restare ciascuno della propria idea?
Agosto a Expo: no code, ma un caldo che ti fa venir voglia di passare a miglior vita.
Perché, in fondo, questo è la morale della favola: la verità non esiste più, viviamo nell’era dei punti di vista, e non serve altro, tanto meno i fact checking che, infatti, non si caga mai nessuno. E – badate bene – se esistono solo i punti di vista, è chiaro che non puoi non averne uno tutto tuo, non importa quanto assemblato con pezzi di risulta di quello degli altri. Devi avere un tuo modo di vedere le cose bell’e pronto all’esternazione immediata, su tutto quello che succede e su tutto ciò che si impone nel grande e incessante dibattito social, ivi inclusa la faida Rossi-Marquez.
Ebbene, sai cosa? io non ci capisco una mazza di moto, figurarsi di MotoGP, ma l’altro giorno ero a tavola con mio padre e la moglie di mio fratello e, ve lo giuro, non solo disquisivo di sorpassi e controsorpassi, ma peroravo con trasporto anche tesi piluccate qua e là da articoli, analisi e interventi di esperti vari.
Credo di poter dire che ci troviamo dentro un cambiamento epocale nelle forme della comunicazione di massa: se prima un argomento, un tema o una notizia si imponevano alla pubblica opinione sulla base della posizione ottenuta su un grande giornale o dalla veemenza del dibattito televisivo (e tu te ne potevi anche sbattere allegramente, a meno di non essere preso in mezzo tra un uomo con un microfono e l’altro con una telecamera che ti interpellavano, per strada, sul tema della settimana), adesso è tutto più incalzante.
Intanto il tema non si impone per la scelta di una redazione ma per la ricorrenza del suo apparire sui nostri screen. Se qualcosa compare più di un tot di volte e se più di un tot di persone han già esternato la loro posizione, bè, che diamine, devi esternarla anche tu, tanto più che puoi farlo nel breve volgere di qualche pigiatina di tasto.
Perché lo fai? Boh, non lo so. So però che è molto difficile farne a meno. E se tutti scrivono la loro su Rossi che prende a calci Marquez o sul pistolero di Vaprio d’Adda che spara eroicamente a un ragazzino disarmato di 22 anni, chi sono io per non scrivere la mia? Ti sembra in qualche modo doveroso, come se il non farlo fosse una scelta pusillanime e pilatesca che mai più un uomo con la tua specchiata web reputation potrebbe permettersi.
Il che mi fa pensare che, forse, un po’ pazzi lo stiamo diventando per davvero, Expo o non Expo.
Ci vediamo tutti come imprescindibili editorialisti di grandi giornali. O forse è solo che non vediamo più gli editorialisti dei grandi giornali come imprescindibili. Vai a sapere.
Fatto sta che produciamo e diffondiamo il nostro punto di vista a getto più o meno continuo.
Non so davvero dire qui se sia un bene o se sia un male e, per una volta, mi voglio concedere il lusso di non stabilirlo (tanto qui siamo solo sulle pagine di un giornale online, e non sulla mia sacra e rassicurante pagina facebook, dove sono il direttore, il caporedattore, la redazione, il critico, l’inviato speciale e pure il correttore di bozze).
Dico solo che, faticosamente, sto tentando di ricostruire un minimo di deontologia paragiornalistica tra me e me.
Del tipo che se una cosa proprio non la so, non la conosco o non mi stimola, evito di scriverne, alla faccia delle logiche polarizzanti dell’attualità 2.0.
Su Expo continuerò dunque orgogliosamente a non esprimermi, sulla base del fatto che se è vero che non mi ha tolto niente, è parimenti vero che non mi ha lasciato niente (a parte, molto probabilmente, un futuro Sindaco indesiderato, ma questo è un altro discorso).
Quindi passi fare il fenomeno a tavola, con il proprio padre o con la moglie del proprio fratello, ma se nei prossimi giorni doveste imbattervi in un mio status, un mio post o anche solo un mio pidocchioso tweet in materia di MotoGp, vi prego, abbattetemi.
E comunque, non era un calcio. Ha solo alzato un po’ la gambetta, come i cani quando pisciano.