Lampedusa, Luminusa

È la storia di uno studente lombardo, Mario, che decide di andare giù a collaborare alla manutenzione di un piccolo museo della memoria, dove tracce del passaggio dei migranti – lettere, fotografie, scarpe – vengono esposte con cura. Intervista a Franca Cavagnoli.

 

di Gabriella Grasso

Adagiata sul Mediterraneo tra la Tunisia e la Sicilia, Lampedusa richiama, attraverso l’etimologia del suo nome, l’idea della luce. E Luminusa (Frassinelli, euro 18,50) si intitola il libro che Franca Cavagnoli, scrittrice e traduttrice, ambienta nell’isola diventata frontiera d’Europa. È la storia di uno studente lombardo, Mario, che decide di andare giù a collaborare alla manutenzione di un piccolo museo della memoria, dove tracce del passaggio dei migranti – lettere, fotografie, scarpe – vengono esposte con cura, simboli di un tentativo disperato di raggiungere un’altra sponda, un’altra vita. L’urgenza personale e profonda che Mario prova di interrogarsi sui temi dell’identità e della memoria incontra, sull’isola, la necessità collettiva di onorare il ricordo di chi, l’identità, l’ha persa: in mezzo alle onde o all’interno di un centro di accoglienza.

Da dove nasce l’esigenza di raccontare questa storia?
«Se per Mario la custodia e l’archiviazione degli oggetti appartenuti ai migranti è un modo per restare umano, il mio libro è un tentativo di restituire delle vite. La questione dei migranti è sempre affrontata in termini di cifre e di quote: è un modo per circoscrivere un fenomeno che atterrisce. E non si tratta solo della paura dell’altro, ma anche delle migliaia di morti in mare. Per l’opinione pubblica e per i media è faticoso gestire la realtà: risulta più facile fornire dati che tolgono umanità. Ma oltre i numeri c’è il dolore, e questo libro è il mio tentativo di comunicarlo. C’è anche un’altra motivazione che mi ha mosso: all’epoca dei respingimenti, che erano opera di un Primo ministro (Berlusconi) e di un ministro degli Interni (Maroni) lombardi, io provavo un profondo senso di vergogna e di indignazione ad appartenere a questa regione. Mi sentivo un corpo estraneo a casa mia: sentimento che, ancora una volta, mi ha riportato al tema del percepirsi stranieri».

A proposito di chi ha perso la vita nel Mediterraneo lei scrive: «Il minimo che si possa fare è ricordarli». Eppure il gran parlare che si fa di memoria come antidoto contro tragedie future non sembra impedire che la Storia si ripeta. Se la memoria individuale può servire a non perdere il proprio senso di umanità, quella collettiva ha davvero un’utilità?
«Alla base del rapporto che ognuno di noi ha con la memoria c’è la volontà individuale di ricordare ciò che accade a noi e intorno a noi. Possiamo anche scegliere di accantonare per un periodo un ricordo che ci fa male, per andarlo a guardare in seguito. Ma se ci si abitua a chiudere gli occhi sistematicamente davanti alla realtà, si mette in atto un fenomeno di rimozione dal quale non c’è ritorno. La conservazione collettiva della memoria dovrebbe invece essere un preciso dovere delle istituzioni. Non parlo solo della questione di migranti: facendo un passo indietro penso alla nostra esperienza di colonizzatori, che gli italiani tendono a rimuovere tanto che le giovani generazioni ne sanno poco, a volte nulla. Le istituzioni hanno un preciso dovere morale, storico e politico non solo di istituire giornate della memoria, ma anche luoghi della memoria. Quando ricorderemo in morti nel Mediterraneo, tra 70 anni? Per un’operazione di questo tipo ci vogliono governi locali illuminati, ma per ora vedo solo un interesse per numeri e quote. E molta propaganda politica che non ha niente a che vedere con la vita vera».

La letteratura può svolgere una funzione sociale in questo senso?
«La letteratura ha il vantaggio che essendo un atto intimo, per il quale c’è bisogno di tempo, offre l’opportunità di riflettere sulle questioni. Ma in Italia si legge poco e qui torniamo al ruolo delle istituzioni, che dovrebbero investire sui giovani».

Il piccolo museo nel quale lavora Mario si ispira a quello che era stato creato a Lampedusa dal collettivo Askavusa. Lei l’ha visitato?
«Durante la stesura del romanzo, nel 2013 ho deciso che era arrivato il momento di andare sull’isola per vederla con i miei occhi, sentirne gli odori. Lì ho conosciuto Giacomo Sferlazzo e gli altri componenti del collettivo Askavusa. All’epoca il loro piccolo museo era già stato chiuso, ma il materiale era stato conservato in un magazzino, al quale ho avuto accesso. Ho passato del tempo in compagnia di quegli oggetti, tenendoli in mano. Come, prima di partire per Lampedusa, avevo passato molto tempo a guardare gli oggetti sul sito di Askavusa: da lì vengono le descrizioni che ne faccio nel libro. In seguito, sempre a cura di Askavusa, è partito il progetto Porto M e ora quel materiale è di nuovo esposto in una stanza, un piccolo luogo raccolto che sembra quasi una grotta».

Nell’avvicinarsi a oggetti trovati casualmente e appartenuti a persone di cui non si sa nulla e che potrebbero anche aver perso la vita in mare, sono necessari rispetto e pudore. Forse è per questo che i protagonisti del libro inorridiscono davanti a un’idea, paventata dalle istituzioni, di costruire a Lampedusa una sorta di “Guggenheim della migrazione”. Lei che posizione ha rispetto all’ipotesi di istituire un Museo?
«La stessa parola “museo” in questo contesto mi fa venire la pelle d’oca, perché il rischio di speculare sulla memoria è alto. Per questo credo che la dimensione trovata a Lampedusa con il progetto Porto M sia quella giusta. Gli oggetti non sono esposti in teche perché non devono solo essere visti: sono riposti uno accanto all’altro, a volte affastellati. Questo obbliga il visitatore a soffermarvisi, a fare uno sforzo per distinguerli e isolarli dentro di sé. Il tempo che si è disposti a investire per osservarli e per accogliere le sensazioni che suscitano può fare la differenza».

Lei traduce il premio Nobel Toni Morrison, che nei suoi romanzi fa spesso riferimento alla tragedia dei tanti africani venduti come schiavi che morirono nell’Atlantico durante la traversata: in che modo questa sua esperienza è legata al libro?
«La conoscenza dell’opera di Morrison è stata una delle mie fonti di ispirazione più profonde, che a un certo punto è emersa. Amatissima, che non ho tradotto io ma di cui ho curato un’edizione, è dedicato alle vittime della tratta degli schiavi morti in mare. Questo mi ha sempre colpito. La protagonista, che pure non ha subito quella sorte, sembra di fatto racchiudere in sé tutti quei morti. Emerge lì il concetto di re-memory, dove il prefisso “re” richiama il modo in cui ognuno di noi può appropriarsi, a livello individuale, della memoria collettiva, facendola propria, quasi ingerendola, assimilandola, facendola diventare il proprio stesso corpo. In questo modo la memoria di un evento diventa così profondamente propria che, quando se ne parla, non ci si accosta solo con la mente, ma la si sente in tutto il corpo, provando a volte dolore fisico. È un concetto molto profondo ed etico».

Lei ha provato questa esperienza di ri-memoria scrivendo il suo libro?
«Sì. Sono dimagrita tantissimo durante la stesura. Quando in un centro di accoglienza a Monteleone di Fermo ho incontrato alcuni ragazzi transitati da Lampedusa che mi hanno raccontato il loro viaggio e le emozioni provate sulla barca, non sono riuscita a mangiare per tre giorni: quel dolore non lasciava spazio, dentro di me, per il cibo. Le sensazioni che ho provato scrivendo sono così forti che non riesco a staccarmi dal personaggio di Mario, cui mi lega un rapporto filiale. Per questo continuerò a seguirlo: sto preparando altri tre libri che avranno come protagonisti lui e altri personaggi di Luminusa».

Uno dei protagonisti di Luminusa (non diciamo quale per non rovinare la lettura) è un ragazzo le cui origini africane vengono alla luce piano piano nel corso del romanzo, un indizio dietro l’altro. Si tratta solo di uno stratagemma letterario?
«No. Il modello per quel personaggio sono stati i miei studenti (l’autrice insegna Teoria e tecnica della traduzione inglese all’università di Milano, ndr) nati in Italia da genitori stranieri, specialmente africani. Mi sono resa conto – all’inizio con stupore – di come loro si percepiscano innanzitutto come italiani e milanesi, esattamente come i loro coetanei i cui genitori sono qui da sempre: solo dopo come neri. Sono gli altri a identificarli innanzitutto con il colore della pelle. Ho iniziato a riflettere su come siano i nostri stereotipi che ci fanno concentrare su certe caratteristiche. Nel descrivere una persona diciamo subito “è nera” prima di dire se è alta o bassa, magra o grassa. E dato che si parla tanto di nuovi italiani e di ius soli, per cercare di infrangere questa barriera psicologica ho pensato che il mio personaggio dovesse raccontarsi esattamente come si percepisce: un giovane italiano. Lui non fa riferimento al colore della sua pelle e quindi chi legge lo pensa bianco. Quando poi vengono fuori, in maniera esplicita, le sue origini africane, il lettore è costretto ad aprire gli occhi e rendersi conto che, nel seguire questo personaggio e nell’affezionarsi a lui, lo ha automaticamente visualizzato come bianco. Ed è qualcosa con cui fare i conti».