Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
di Clara Capelli
Le primarie americane 2016 sono ancora in fase di rodaggio, ma sia tra i repubblicani sia tra i democratici la questione della finanza e della sua regolamentazione pare essere un tema chiave, riallacciandosi a una storia iniziata più di ottant’anni fa e legata alla crisi finanziaria del 2007-2009.
C’era una volta negli Stati Uniti una legge nota come Glass-Steagall Act, introdotta nel 1933 ai tempi della Grande Depressione. La crisi del ’29 aveva posto fine ai “Ruggenti Anni Venti” del Grande Gatsby e al boom economico che danzava sulle note del jazz. Gran parte di questa crescita era infatti trainata da una sostenuta speculazione finanziaria: intere fortune si potevano costruire speculando sui titoli di borsa, compra, vendi, vendi, compra, il prezzo sale, il prezzo scende.
Le banche, stufe di fare solo le banche e gestire prestiti e depositi, si lanciarono nella mischia, spesso in connivenza con gruppi di speculatori: concedevano a questi ultimi dei prestiti perché acquistassero dei titoli facendone decollare il prezzo, in seguito vendevano questi stessi titoli ai loro clienti, guadagnandoci somme importanti. Poi, un nero martedì del 1929, la musica finì e il castello di carte crollò tutto d’un colpo. Quattro anni dopo, il Congresso statunitense introdusse il Banking Act, noto come Glass-Steagall Act dal nome dei suoi due promotori, i democratici Carter Glass e Henry Steagall.
Questa legge separava le banche commerciali – le banche che fanno le banche, almeno secondo il senso comune – da quelle d’affari o d’investimento, ossia gli istituti che – semplificando moltissimo – si occupano di prodotti finanziari di vario tipo. Per quanto il mondo di banchieri e finanzieri sia molto complesso, l’idea alla base del Glass-Steagall Act era piuttosto semplice: impedire che i fallimenti delle attività finanziarie, spesso ad alto rischio, ricadessero sui depositi di piccoli e medi risparmiatori.
Quindi vissero tutti felici e contenti? No. Vennero gli Anni Ottanta di Ronald Reagan e Gordon Gekko di Wall Street e poi i “Ruggenti Anni Novanta” raccontati (e criticati) da Joseph Stiglitz nell’omonimo libro del 2003. La musica era cambiata di nuovo sul dance floor. Lasciati alle spalle i brutti ricordi della Crisi del ’29, lo spirito del tempo vedeva nella finanza uno strumento necessario per la crescita economica: la Storia era finita a Berlino, gli Stati Uniti della new economy conoscevano un periodo di sostenuto sviluppo alimentato in particolare dalle telecomunicazioni. E per avere una grande economia, anche il settore finanziario doveva essere lasciato libero di espandersi per rispondere ai bisogni di crescita.
La presidenza di Bill Clinton – di cui Stiglitz fu primo consigliere economico tra il 1995 e il 1997 – si pone sostanzialmente in continuità rispetto alla deregulation dell’economia e della finanza iniziata a cavallo tra la fine degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta. Nel 1999 il Gramm-Leach-Bliley Act (o Financial Services Modernization Act) abolisce la separazione tra banche commerciali e d’affari contenuta nel Glass-Steagall Act, rendendo di fatto fluidi i confini tra settore bancario, assicurativo e finanziario e rimuovendo così dei vincoli ormai inutili per un mondo finanziario profondamente diverso rispetto a quello degli Anni Trenta.
Too Big Too Fail, Il Crollo dei Giganti
Cosa è successo tra il 2007 e il 2009 con la crisi finanziaria è cosa nota. Più dibattuta è invece la relazione tra la speculazione fuori controllo e l’abolizione di parti cruciali del Glass-Steagall Act. Chi si oppone a una reintroduzione della legge sostiene infatti che la responsabilità della speculazione selvaggia sia da società finanziarie come Lehman Brothers o banche di investimento “pure” come Bear Stearns, ossia istituzioni che non sarebbero comunque state regolate dal Glass-Steagall Act. Altri replicano che la revoca della legge avrebbe reso possibile la nascita di istituti come Citigroup e permesse a compagnie di assicurazione come la American International Group (AIG) di fare affari con titoli finanziari.
Dopo il 1999 le banche commerciali avrebbero potuto compensare per i bassi tassi di interesse sul mercato imbarcandosi nella compravendita di sofisticati prodotti finanziari legati a mutui e prestiti spazzatura da loro stesse concesse. Fino a che qualcuno ha inciampato nella danza e il castello di carte è crollato un’altra volta, rendendo necessario l’intervento dello Stato con nazionalizzazioni e aiuti consistenti. Too big too fail, questi istituti erano troppo grandi per fallire senza trascinare con sé l’economia statunitense.
Se l’abrogazione della separazione tra banche commerciali e d’investimento non è la causa prima della crisi – il Glass-Steagall è figlio di un mondo che ballava tutta un’altra musica -, ha comunque contribuito ad acuirne gli effetti. Nel 2010 l’amministrazione Obama introduce una nuova legge il Dodd-Frank Act, che rende più severi la regolamentazione e il controllo del settore bancario, in particolare su carte di credito e mutui immobiliari. Tre anni dopo, la senatrice democratica Elizabeth Warren e il senatore repubblicano John McCain riesumano la questione del Glass-Steagall Act, riaccendendo il dibattito.
Le primarie per la presidenza 2016 hanno offerto sinora uno spaccato interessante dell’agenda politica dei due grandi partiti riguardo alla finanza e alle norme che dovrebbero disciplinarla. I candidati repubblicani si trovano tendenzialmente d’accordo sulla possibilità di abolire il Dodd-Frank Act, considerata dal senatore della Florida Marco Rubio una misura utile per ridare ossigeno soprattutto a piccole e medie attività.
Nel partito democratico il tema centrale è invece il Glass-Steagall Act: mentre Hillary Clinton ribadito in più sedi che non c’è alcun nesso tra la legge e le dinamiche della crisi finanziaria, tre suoi avversari si stanno invece spendendo in varia misura su questo fronte: Martin O’Malley, governatore del Maryland ed ex sindaco di Baltimora; Lincoln Chafee, governatore del Rhode Island (che nel 1999 votò per l’abolizione del Glass-Steagall Act, giustificandosi ora goffamente dicendo “non sapevo cosa stavo facendo”); e Bernie Sanders, il senatore indipendente del Vermont che sta facendo parlare molto di sé definendosi con orgoglio un “socialista” (benché il suo programma sia riconducibile a politiche di stampo socialdemocratico).
Sanders e O’Malley hanno saputo cavalcare il forte impatto mediatico che le dichiarazioni della Senatrice Warren continuano ad avere sui profitti stellari di banche e società finanziarie. In particolare, Sanders ha molto insistito sui chiacchierati legami della Clinton con Wall Street. Legami che risalgono alla presidenza del marito Bill, come sottolineato più volte dall’economista statunitense Robert Reich, allora Segretario del Lavoro.
Consapevole di quanto delicata sia la sua posizione su questo fronte, Hillary Clinton ha saputo gestire molto abilmente la situazione, sottolineando la necessità di rigorosi controlli su Wall Street senza andare troppo nei dettagli, né prendere una posizione netta contro il ritorno del Glass-Steagall Act; inoltre, ha scelto come tesoriere della sua campagna elettorale Gary Gensler, ex dirigente di Goldman Sachs divenuto famoso per il suo sostegno alla Senatrice Warren e le sue dichiarazioni critiche verso Wall Street.
Al di là della campagna elettorale e della caccia al voto dei candidati di entrambi i partiti, il dibattito ora in corso negli Stati Uniti bene dimostra come il ruolo della finanza nell’economia e nella politica sia una questione tutt’altro che risolta. Non resta che stare a vedere quale musica si ballerà nel 2016.