Sotto la lampada a risparmio energetico di una cucina nel barrio La Floresta di Bogotà, due ragazzi e una ragazza preparano cena.
da Bogotà Sandro Bozzolo
Il primo è uno studente di storia contemporanea in una delle numerose università che si trovano in quella zona. Viene dalle regioni del caffè, e porta un cognome tedesco, o forse francese.
Il secondo arriva dalle estreme periferie del Paese, strade di sabbia e colori accesi che culturalmente rimandano a un Caribe lontano anni di luce dai centri di potere della capitale andina. E’ un musicista autodidatta, che ha tradotto in lirica una sorta di poema epico dedicato a Borges.
La ragazza invece è nata e cresciuta a Bogotà, in un’epoca in cui tutto era già successo: il pluridecennale fenomeno del desplazamiento [esodo forzato interno] aveva già provocato l’implosione di quella che un tempo veniva definita “l’Atene sudamericana”.
QCode chiede un pezzo di approfondimento sull’accordo di L’Avana che dovrebbe portare alla firma dell’accordo definitivo, previsto per il 23 marzo 2016, tra il governo e le FARC, e questi tre ragazzi rappresentano un campione esemplificativo di quella generazione colombiana che si appresta a ereditare un Paese diverso.
“Cosa vi aspettate dalla firma del trattato di pace?”
Per un momento i tre ragazzi rimangono disorientati. Non si aspettavano di ritrovarsi a parlare di un argomento che spesso appare ancora come un tabù. O forse davvero non riescono ad aspettarsi nulla di concreto, da questo momento storico che ha il vago sapore di un salto nel buio. La loro intera esistenza è stata segnata dalla presenza oscura di una forza che in qualche modo ha impregnato tutto quel che accadeva intorno a loro.
L’esodo di un lontano zio verso un’altra regione del Paese, verso una terra senza pizzi né sequestri. L’impossibilità di muoversi liberamente lungo il territorio nazionale.
O forse, più comunemente, una retorica di Stato imperniata sull’“annientamento del nemico” e i sacrifici necessari “per garantire sicurezza”. Il fatto che presto i guerriglieri possano scomparire dall’orizzonte del quotidiano causa un certo stupore, come una sensazione di freddo improvviso.
“Niente accade per caso”.
Juan Camilo, studente in storia contemporanea, esprime soprattutto una certa curiosità. “Niente accade per caso, soprattutto in Colombia. In questo Paese non esiste una sola cattedra di Storia della Colombia. Ai ragazzi si insegna il periodo coloniale, la retorica dell’indipendenza, ma tutto quel che è accaduto in seguito – il federalismo ottocentesco, la lunga stagione di guerre civili, il liberalismo di Gaitán, il suo assassinio che ha portato al Bogotazo [ribellione urbana] del 9 aprile 1948 e alla conseguente esplosione della violenza – continua a essere un assoluto tabù. Lo stesso progetto di Simón Bolívar, che prevedeva una Gran Colombia formata dalle attuali Repubbliche di Colombia, Venezuela ed Ecuador, è stato più volte sottoposto a revisionismo storico”.
Per Juan Camilo, quindi, i prossimi mesi saranno decisivi. “Lo Stato dovrà entrare in maniera decisa in quelle vaste aree finora controllate dalla guerriglia. Dovrà implementare da subito una rete di servizi, soprattutto per quanto riguarda l’educazione. Quella sarà la vera frontiera su cui si giocherà il processo di pacificazione”.
“L’altra faccia di una stessa élite”.
Il musicista è leggermente più scettico. “Questo Paese sono quaranta milioni di Paesi diversi, tanti quanti sono i suoi abitanti. Non esiste il concetto di azione comune, non esiste la comunità colombiana di cui parlano i giornali”. Lui stesso, che si guadagna da vivere suonando sulla rete di trasporto metropolitano Transmilenio, appartiene a quella vasta percentuale di colombiani impegnati nel cosiddetto “commercio informale”, tollerata dalle autorità, consapevoli di non essere in grado di offrire opportunità per tutti. “Le FARC sono esistite con il beneplacito dei diversi governi che si sono succeduti. Non è un segreto per nessuno che i figli dei loro luogotenenti siano studenti nelle più esclusive università di Londra o Parigi, insieme ai figli delle élite colombiane. Questa è la verità: le FARC sono una diversa espressione delle élite che controllano il Paese”.
“Una minoranza in rapida crescita”
Di diversa opinione è invece Natalia, social designer presso uno studio che si occupa di inclusione sociale. Tutte le mattine esce di casa prima dell’alba, attraversa la metropoli in bicicletta e si dedica a progetti di marketing realizzati da una Fondazione che lavora nei quartieri sensibili della Capitale. “L’epoca della guerra, della violenza, del narcotraffico appartiene al passato. E’ l’immagine di una Colombia che per troppo tempo ha dominato l’immaginario nazionale, fino a spingere molte persone a credere che siamo davvero così. Le nuove generazioni, però, vivono proiettate verso un’altra realtà, e guardano le telenovelas che continuano a rimanere afferrate a questo immaginario con un sentimento a metà tra il sorriso bonario e il disgusto. Siamo una minoranza, probabilmente è vero. Ma siamo una minoranza in rapida crescita, e per questo è vero che occorre approfittare di questo momento storico per rafforzare il sistema scolastico, e garantire un’educazione di qualità che sia accessibile a tutti”.
Tutto questo accade mentre gli analisti politici, sui giornali, affrontano la questione da ogni angolo possibile, senza aggiungere molto a quel che già è di dominio pubblico. Gli aspetti più delicati toccati dai negoziati di L’Avana per il momento rimangono segreti, soprattutto per quanto riguarda il destino che aspetta i guerriglieri in seguito alla smobilitazione. Nella giornata di giovedì 1° ottobre il responsabile della delegazione cubana, Iván Márquez, ha rivelato che il documento provvisorio si fonda su 75 punti all’ordine del giorno, provocando la reazione del procuratore generale della repubblica, Alejandro Ordóñez Maldonado, che ha richiesto alle parti in causa di rendere pubblico il testo completo. I settori politici vicini all’ex-presidente Uribe (dichiarato avversario di ogni trattato di pace con le FARC) si scagliano indignati contro l’eventualità di una “normalizzazione” politica della guerriglia, rilasciando dichiarazioni alla “ripugnante eventualità di ritrovarsi i terroristi seduti al Congreso [il Parlamento colombiano], o addirittura alla presidenza della Repubblica”. Il presidente Santos, dal canto suo, cavalca l’onda di popolarità seguita dall’annuncio del 23 settembre, e promette che il prossimo obiettivo è includere nell’accordo di L’Avana anche l’ELN [Ejercito de Liberación Nacional], l’altro principale gruppo guerrigliero colombiano.
Nel frattempo, invisibile alle speculazioni dell’opinione pubblica, prosegue il delicato lavoro della decina di esperti, consulenti e assessori che concretamente stanno disegnando il futuro della Colombia post-guerriglia, con la consapevolezza di agire su un terreno che non permette errori. Le vaste regioni che finora sono rimaste sotto il controllo dei guerriglieri custodiscono enormi ricchezze naturali, agricole, antropologiche, e non è difficile immaginare una vasta schiera di entità commerciali e paragovernative intenzionate ad occupare gli spazi di potere lasciati vuoti dalla smobilitazione delle FARC.