SIDNEY, TOKYO, DETROIT: IL RACCONTO DI TRE CITTÀ
di Valeria Nicoletti, foto di Paolo Mazzo
“Viaggiando ci si accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti”, così raccontava Marco Polo delle città invisibili che aveva esplorato, nel libro di Italo Calvino. Tra analogie e divergenze, tre città si raccontano, in immagini e parole, attraverso le traiettorie degli abitanti, il profilo degli edifici, le orbite dei microsistemi che si costituiscono intorno ai quartieri, ai teatri, alle icone cittadine, gli spostamenti che seguono inevitabilmente l’ascesa e il declino delle economie. La prima fermata è Sidney, dove intorno all’Opera House un piccolo universo si crea ogni giorno, più o meno consapevole della sua scenografia.
“Abbiamo avuto la soddisfazione di trovare il più bel porto del mondo”, si leggeva in un dispaccio di fine Settecento inviato in Inghilterra dall’Australia. Capitale del Nuovo Galles del Sud, ex colonia penale britannica, Sidney si adagia su un bacino costiero, disegnando il porto naturale più grande del mondo, Port Jackson. Deve aver avuto la stessa soddisfazione dei primi navigatori settecenteschi, il gruppo di architetti guidati dal danese Jørn Utzon, responsabile del progetto dell’Opera House.
Iniziati nel 1958, i lavori per la costruzione dell’edificio hanno conosciuto una storia travagliata: l’architetto Utzon, infatti, non riuscì a garantire una paga adeguata ai suoi collaboratori e, per via di numerosi malintesi tra le società coinvolte, abbandonò il progetto nel 1966. Non prima, tuttavia, di aver contribuito alla costruzione e all’estetica dei gusci esterni, ricoperti con 1.056.066 mattonelle di ceramica bianca importate direttamente dalla Svezia, perché assomigliassero a grandi vele bianche, in contrasto con il blu dell’oceano. L’edificio si concluse poi nel 1973, a firma degli architetti rimasti nel progetto e dell’architetto ufficiale di Stato. Solo dopo vent’anni, Utzon tornò a lavorare per l’Opera House di Sydney, nel 1999, portando a compimento alcuni dei suoi studi, tra cui una piccola sala che oggi porta il suo nome, ma non vide mai la fine del suo progetto, il teatro ultimato.
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