di Davide Maggiore
Di quanti anni bisogna tornare indietro per capire l’attacco di venerdì scorso all’hotel Radisson di Bamako e le sue ventisette vittime? Appena di quattro, come sostiene su Il Giornale Gian Micalessin, puntando il dito sulla “guerra a Gheddafi voluta dalla Francia d’intesa con il Qatar”? O forse di quasi sessanta, per riascoltare le parole di François Mitterrand, allora ministro della Giustizia, maggio 1957, in piena guerra d’Algeria?
“Il dovere della Francia è restare in Africa del Nord a dispetto di tutto”, dichiarò quel giorno il futuro presidente all’agenzia France-Presse. Restare, a dispetto di tutto, envers et contre tous: difficile trovare un’espressione che, al di là degli anni e dei paesi, abbia caratterizzato di più la politica francese in Africa.
L’ostinazione del ministro Mitterrand, infatti, sarebbe stata, pochi anni dopo, la stessa di De Gaulle e del suo braccio destro per le questioni africane, Jacques Foccart: l’inventore della politica che permise a Parigi di continuare a influenzare ideologicamente ed economicamente la vita di quegli stati africani che, ufficialmente, aveva decolonizzato.
A descriverne meglio gli effetti è stato un insospettabile, un altro capo di stato francese: Jacques Chirac, in un’intervista del 2007. “Dopo averne rubato la cultura – spiegava riferendosi ai popoli colonizzati d’Africa – ne abbiamo rubato le risorse, le loro materie prime, servendoci della manodopera locale. Abbiamo preso loro tutto e abbiamo ripetuto che erano buoni a nulla…”. Françafrique, l’hanno definita, espressione intraducibile quanto chiara – e duratura nei suoi effetti anche mentre, a parole, se ne annunciava ripetutamente la morte.
“La Françafrique è finita”, diceva nel 2009 Bernard Kouchner, ministro degli Esteri con la destra di Sarkozy. Ma ancora tra 2010 e 2011, le truppe francesi avrebbero giocato un ruolo determinante nel far terminare la guerra civile in Costa d’Avorio. “Il tempo della Françafrique è terminato”, ribadiva nel 2012 François Hollande, il primo socialista arrivato all’Eliseo dopo Mitterrand.
Ma dal gennaio dell’anno successivo, le truppe francesi sarebbero entrate proprio in Mali: dovevano impedire che i ribelli fondamentalisti – comandati da alcune delle stesse figure che hanno rivendicato l’attacco al Radisson – rovesciassero il governo di Bamako. Un esecutivo nato pochi mesi prima, dopo un golpe (quello contro il presidente uscente, Amadou Toumani Touré) che secondo molti osservatori, Parigi non aveva visto di cattivo occhio.
È da questa mescolanza, durata decenni, di opportunismi politici, errori strategici e interventi in parte benintenzionati, ma decisi envers et contre tous che traggono la loro forza anche Al Mourabitoun o Al Qaeda nel Maghreb Islamico (le due sigle jihadiste che hanno rivendicato l’attacco di Bamako). Un filo rosso che va al di là dei passaggi di uomini ed armi dalla Libia del dopo-Gheddafi al Mali e che per essere reciso richiede di affrontare nodi persino più intricati. A partire dagli elementi messi – tardivamente – in luce dallo Chirac del 2007.