Parigi: dimenticare l’orrore

Dopo gli attacchi del 13 novembre,
nella capitale francese «non si ha voglia di fare finta
che vada tutto bene, almeno per un po’»

di Valeria Nicoletti, da Parigi

Mercoledì 18 novembre, aeroporto di Bari. Sedili vuoti sul volo Ryanair. I passeggeri diretti a Parigi si accomodano un po’ ovunque, senza controllare il posto sul biglietto. Giacche e borse accanto. Il volo è calmo. Consueto applauso all’atterraggio. All’aeroporto di Beauvais, c’è un insolito tepore, per un pomeriggio di novembre inoltrato. Prima di recuperare il bagaglio, la sparuta fila di passeggeri si mette in coda per il controllo dei documenti, ripristinato anche all’interno della zona Schengen dopo gli attentati del 13 novembre. All’uscita, nulla sembra essere cambiato, se non un silenzio ovattato, una certa circospezione, quasi incredulità. Un gruppuscolo di militari confabula davanti allo spiazzo dei pullman.

Ancora prima di arrivare a Parigi, la circolazione è intasata. Lo sarà anche nei giorni seguenti. Tra Montmartre e la stazione di Saint-Lazare, restiamo imbottigliati almeno tre volte nel taxi. Ci decidiamo a prendere la metro. Lungo i corridoi, annunciano la sospensione di qualche corsa per il ritrovamento di un pacco sospetto in almeno tre stazioni. Un annuncio che cade sordo tra i passi di chi, pur volendo, non ha alternative ai mezzi di trasporto in comune.

Nessuno si stupisce, nessuno rallenta. Si fa finta di niente. Durante la settimana successiva, verranno evacuate numerose stazioni e linee di transito.

La mia finestra si affaccia sulla rue Norvins, nel cuore di Montmartre, a pochi passi dalla Place du Tertre, quartier generale dei caricaturisti e dei pittori, a un centinaio di metri dalla Basilica del Sacro Cuore. Di solito, dalla strada arrivano le chiacchiere ininterrotte dei turisti, gli accordi di qualche musicista, il pianoforte del ristorante di fronte casa.

Venerdì 20 novembre, una settimana dopo gli attacchi, tutto è deserto.

Il pianoforte resiste abbozzando la colonna sonora dei film con Alain Delon. Il cuoco del Tirebouchon, noto ritrovo di turisti e habitué, conosciuto per le pareti e il soffitto ricoperti di bigliettini e lettere degli avventori, fuma una sigaretta dopo l’altra, seduto su un tavolino a caso, fuori. Sono tutti vuoti. Il ragazzo delle crêpes, davanti casa, ha lo sguardo perso nel vuoto. Ogni tanto incrocia il mio. Il proprietario del negozio di souvenir, accanto, passa le giornate con il telefono in mano, a dare un’occhiata alla strada di tanto in tanto. Sulla Place du Tertre, sono arrivate le luci di Natale, ma la piazza resta in silenzio. I ristoratori del quartiere hanno ridotto il personale. All’indomani degli attentati, quasi tutti hanno ricevuto la disdetta di circa il 60 per cento delle prenotazioni per il periodo natalizio. Di sera, i ritrattisti chiedono ai camerieri in basco e bretelle se, almeno per ingannare il tempo, per caso avessero voglia di una caricatura per cinque euro.

Domenica 22 novembre, in centinaia hanno manifestato seguendo il tradizionale percorso dei cortei di protesta, da Bastille a Place de la République, in occasione della marcia per il sostegno ai migranti, che si è trasformata in una rivendicazione contro lo “stato di polizia”, lo stato d’emergenza deciso da Hollande, votato dalla maggioranza dei deputati, sostenuto da una schiacciante approvazione della maggior parte dei cittadini e prolungato fino a febbraio 2016 su tutto il suolo francese e nei territori d’oltremare.

Una misura che ha fatto tuttavia storcere il naso, di fronte all’eventualità di una modifica costituzionale, alla perdita della libertà di manifestare, alla deriva del governo di sinistra.

Eppure, al di là delle tribune degli intellettuali sulle pagine di Libération, più del 90 per cento dei francesi sembra sostenere le misure preventive di Hollande e il presidente della Repubblica, insieme al primo ministro Manuel Valls, ha conosciuto un inaspettato aumento di popolarità all’indomani del 13 novembre. La Francia sembra quasi oscillare tra due spinte contrastanti: da un lato, la paura di una normalizzazione dello stato d’emergenza, dall’altro il desiderio, a tratti immaturo e con derive imprevedibili, come scrive Avital Ronnell, proprio su Libération, di sentirsi sorvegliati, protetti, guardati a vista.

La stessa contraddizione sembra riprodursi sui social network, dove una pioggia di hashtag, più o meno discutibili, incoraggia i parigini, residenti e di passaggio, a ritornare nei bar, ai concerti, al cinema, ai musei, ad alzare la voce, a fare festa. #Tousaubistrot, o ancora #Jesuisenterrasse, e affini, ricalcati sull’ormai abusato #JesuisCharlie, imperativi di tal fatta esortano a tornare per le strade, a farsi sentire, con tanto di foto e selfie, bicchiere in mano, nei bar della capitale.

Intanto, nel silenzio della vita di tutti i giorni, nelle abitudini, qualcosa si modifica impercettibilmente.

Dopo la tiepida euforia dei primi giorni, dopo i vaneggiamenti di chi ha individuato nel movente degli attentati una «semplice invidia» per lo stile di vita à la française, qualcuno ha iniziato a riconoscere che il successo di imperativi quali #tousaubistrot è tale solo su Twitter e che i caffè sono ancora vuoti. Forse perché, la Francia, fortunatamente, non è solo il tavolino di un bar, basta uscire dall’undicesimo arrondissement della capitale per rendersene conto. Nonostante dal 14 novembre se ne vendano 1.500 esemplari al giorno, Parigi non è solo la festa mobile di Hemingway. Se c’è un perché all’inumanità degli attentati, forse è da ricercarsi nelle ragioni per cui è dalla Francia che parte più di un terzo dei combattenti europei arruolati nello Stato Islamico, o ancora, nei confini delle banlieue, in quel cordone insuperabile del boulevard périphérique, nelle sempiterne difficoltà d’integrazione, in quel pensiero “retro-coloniale” che non è stato mai messo da parte.

Seguendo rue des Abbesses, o ancora lungo il Canal Saint-Martin, o nel cuore del Marais, tutto è vuoto e silenzioso. A lasciare in casa le persone non è solo il freddo, arrivato questo fine settimana. E nemmeno la paura.

Forse ci si vuole soltanto dimenticare dell’orrore, scrollarsi di dosso la quanto mai inopportuna e insensata etichetta di “generazione Bataclan”.

Gli psicologi al servizio dei superstiti dell’attentato, soprattutto dei più giovani, lo ripetono senza sosta: non è obbligatorio sentirsi subito bene, tornare alla vita di tutti i giorni, come se niente fosse accaduto. Semplicemente, forse, non si ha voglia di fare festa. Non si ha voglia di brindare. Per una volta, non si ha voglia di fare finta che vada tutto bene, almeno per un po’.