La Frontiera

L’ultimo libro di Alessandro Leogrande, nuova tappa di un percorso nel giornalismo narrativo italiano

di Christian Elia

«Proprio lì, in mezzo all’andirivieni di onde, in un luogo imprecisato, senza coordinate cui aggrapparsi, dove tutto è orizzonte, sole di giorno e stelle di notte, e vomito, ansia, silenzio, promiscuità dei corpi, proprio lì dove l’infinito coincide con la nullità di ognuno, in un luogo imprecisato, si dice addio al paese della gioventù. O meglio, alcuni riescono a dirlo, mentre altri appassiscono».

Alessandro Leogrande sceglie queste parole per descrivere quello che si prova su un barcone in mezzo al Mediterraneo. Ed è una descrizione empatica, di colui che prova sempre e comunque a porsi – anche solo per un momento – dal punto di vista del raccontato.

Leogrande è uno di quei giornalisti che ama perdersi. Uno di quelli che le storie non le morde, non le stringe, ma si lascia avvolgere dalle vite, dai luoghi, dai contesti. La Frontiera, edito da Feltrinelli, è l’ultimo dei suoi libri. Uno dei meno legati al reportage, ma non meno intenso di altri.

E’ un percorso in una memoria che allo stesso tempo ha il respiro del personale e del globale, ha il nome e il volto del vecchio amico curdo frequentato ai tempi dell’università, fino a coloro che sono scampati al naufragio del 3 ottobre 2013, passando per uno ‘scafista bambino’, fino all’attivista che si batte per i migranti del Corno d’Africa imprigionati nell’inferno del Sinai.

Riesce a farlo, però, senza perdere di vista il contesto. Perché la differenza tra una storia e la Storia è proprio la capacità della prima di essere parte della seconda. E allora non ci si deve fermare alla polaroid, al barcone, al naufragio sotto casa. Perché ci sono migliaia di barconi e di naufragi. E c’è tutto il resto.

Legare i fili, quelli che legano Etiopia, Eritrea, Somalia e Libia alla nostra storia coloniale, ad esempio, intrecciando gli attivisti alle vittime, gli scafisti al business, fino a raccontare la Grecia di Alba Dorata e i pestaggi di Tor Pignattara, il Sinai dei trafficanti, l’Afghanistan e l’Iran, la Turchia e la balkan route. Perché solo una visione d’insieme ci tiene al riparo dalla superficialità, dal qualunquismo, dalle soluzioni mediatiche.

 

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Anche perché, come scrive Leogrande, “Le frontiere cambiano, non restano mai fisse. Si allarga l’Europa e mutano i punti di ingresso. Scoppiano guerre, cadono dittature, esplodono intere aree del mondo e si aprono nuovi varchi. I varchi, a loro volta creano un mondo, una particolare società di confine che definisce le sue regole e i ruoli all’interno. Sono a tutti gli effetti dei porti franchi. Ma poi anche questi mutano nel tempo, e vengono sostituiti da altri porti franchi”.

La delicatezza, reportage a parte, resta la stessa degli altri lavori di Leogrande. Il Naufragio, rispetto all’affondamento da parte della Marina militare italiana di una nave carica di migranti albanesi nel 1997, ad esempio, è un lavoro che oggi si intreccia con nuove frontiere, nuovi migranti, Mare Nostrum e Triton. Passando per Uomini e caporali, sul bracciantato in Puglia, che all’epoca era polacco e oggi viene da altrove.

Il respiro del lavoro di Leogrande, in questo come negli altri libri, resta profondo. E scritto con cura, quasi con la paura di rompere vite troppo fragili, raccontandole a voce troppo alta. E il pregio di un libro che racconta storie che magari, in maggioranza, si conoscevano già, non rende debole il testo, anzi, gli rende il merito della visione d’insieme e delle connessioni che vengono colte e raccontate.

P.S. E’ tornata in edicola Pagina99, ed è una buona notizia. Ogni numero settimanale, avrà un inserto chiamato FuoriBordo, a cura proprio di Alessandro Leogrande, dedicato al lognform, il giornalismo narrativo quello vero. E questo è una eccellente notizia.