Cronaca di una domenica a Place de la République

Dalla pacifica distesa di scarpe agli scontri tra polizia e militanti. Cronaca di una domenica a Place de la République, due settimane dopo gli attentati del 13 novembre.
Da Parigi, Valeria Nicoletti

Sono le dieci di mattina, domenica 29 novembre a Parigi. La città si sveglia lentamente, sono ancora assonnati i boulevard che si dipanano da Place de la République, eppure, ai piedi della statua divenuta tristemente celebre nelle ultime settimane, sono in migliaia i manifestanti che hanno risposto all’appello dell’ong Avaaz. Stivali, scarpe da corsa, infradito, pantofole e perfino qualche paio di pinne, erano centinaia le scarpe schierate in piazza, una accanto all’altra, insieme a quelle calzate da piedi celeberrimi, come quelli di Vivienne Westwood, Marion Cotillard, Ban-ki Moon e papa Francesco, che per l’occasione ha inviato un paio di eleganti mocassini in vitello. Da quando il varo dello stato di emergenza ha annullato ogni forma di assemblea e raggruppamento cittadino, gli ambientalisti sono corsi ai ripari per inventarsi forme altre di partecipazione, tra cui questa raccolta di scarpe, un paio per ogni manifestante, devolute poi in beneficenza. L’atmosfera è calma ma eccitata, dietro gli striscioni è ancora visibile l’omaggio alle vittime degli attentati, fiori, ceri accesi, messaggi, disegni, bandiere.

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Una ventina di militanti arrivano in bici, sette fanciulle australiane si presentano come angeli del clima e incorniciano un angolo della piazza. C’è chi gira intorno in skate, chi si avvicina con diffidenza. Poche centinaia di metri più in là, lungo Boulevard Voltaire, di fronte al Bataclan, inizia la catena umana, organizzata dalle associazioni Attac e Alternatiba, che si allunga dalla stazione Oberkampf a place de la Nation, circa tre chilometri di cittadini francesi, presi per mano l’uno con l’altro, una manifestazione responsabile e sicura, rispettosa dell’atmosfera di lutto che ancora avvolge l’undicesimo arrondissement. “Abbiamo colto la sfida del clima, della giustizia, mentre hanno continuato a dirci che oggi saremmo dovuti restare a casa a guardare la televisione”, dichiara Geneviève Azam, dell’associazione Attac, “c’è bisogno di una società viva, attiva e non anestetizzata dalla paura”.

All’angolo della rue de Crussol, che incrocia il boulevard, sono freschi i fiori che ricordano le vite spezzate, appena due settimane fa, eppure la sensazione di spensieratezza pervade la strada.

C’è chi intona “La mer”, una vecchia aria di Charles Trenet, stringendo in mano onde di cartone, chi attacca Monsanto, chi si è travestito da falco, da leone, da polpo, tutte le età e da tutta la Francia, e non solo, sono diecimila, presi per mano, per manifestare una comprensibile diffidenza di fronte alle modalità della COP21, per continuare a far sentire la voce dei cittadini, grandi assenti della conferenza internazionale, ma anche per reagire di fronte allo stato d’emergenza e alla psicosi del terrore. “Mi sembra ridicolo che ci chiedano di non camminare per strada, di restare a casa”, dice Amarine, da Marsiglia, “cosa devo dire ai miei nipoti? Che abbiamo avuto paura di manifestare?”.

Non sono in pochi a protestare contro quelle che sono state definite come vere e proprie discriminazioni delle misure preventive adottate dal governo, all’indomani della riapertura di musei, cinema, centri commerciali, alla vigilia dell’inaugurazione dei primi mercatini di Natale.

Sono in molti a dirsi en colère, un intero Paese in fila indiana, che si chiede a voce alta perché a essere intaccato dal terrore sia il diritto di manifestare e non quello di far circolare liberamente merci, ipotetici consumatori e capitale. Tra gli striscioni, i travestimenti, gli slogan, l’indignazione collettiva e condivisa per l’imposizione e l’ordine di restare in silenzio, s’intravede quello spirito francese che, nelle ultime settimane, è stato ingiustamente rinchiuso in un’etichetta, in una definizione, ridotto a un tavolino da bar, a un concerto, a un bicchiere. La Francia sfodera uno dei suoi migliori talenti: l’arte della manif, il coro cittadino, levato a gran voce, una sorta di jemenfoutisme, tutto francese, che torna in strada, finalmente.

Dall’altra parte della Senna, intanto, rispettosi del divieto di manifestazione, ma non con meno intensità si sono riuniti 400 rappresentanti della comunità musulmana di Francia, nell’elegante auditorium dell’Insitut du Monde Arabe, presieduto da Jack Lang, ex ministro della Cultura francese. Un incontro storico, che ha visto seduti insieme imam di periferia e Fratelli Musulmani, portavoce della società civile e anche rappresentanti di altri culti, tra cui il Gran Rabbino, impegnati nella redazione e nella firma di un manifesto simbolico della comunità musulmana in Francia, che si dimostra unita nella condanna degli attacchi del 13 novembre, delle derive sanguinarie di Daesch, pronta e desiderosa di conciliare la fede islamica con i valori laici della Repubblica. “Occorre innescare una djihad spirituale e cittadina”, dichiara Mohammed Chirani, portavoce dei giovani musulmani, autore del libro “Réconciliation Française”, la sfida di vivere insieme, di recente minacciato di morte da Daesh, “il terrorismo islamico non è solo un esercito, è anche un’idea, da combattere quotidianamente, attraverso il dialogo, la comunione tra le tante voci, musulmane e non”.

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Cominciano ad arrivare poco dopo le due del pomeriggio, le prime notizie di scontri a Place de la République. Un impressionante carico di polizia e CRS, la Compagnie Républicaine de Sécurité, ha circondato la piazza in poco meno di mezz’ora, bloccando ogni via d’accesso e d’uscita. I primi gas lacrimogeni hanno trasformato l’area in un campo di battaglia, in uno scenario, prevedibile forse, ma non meno deludente e non meno triste, di guerriglia urbana.

Ha senso chiedersi chi ha iniziato prima? Sono volati prima i sassi e le bottiglie o le manganellate? Viene quasi da pensare che se qualcuno dei ricercati per terrorismo si fosse trovato nei paraggi, non sarebbe riuscito a trattenere una risata davanti a un Paese messo sottosopra dalla paura e dall’allarme attentato. Come se qualcuno, alla fine, avesse raggiunto il suo scopo, la guerra urbana, l’autodistruzione. Nella sconcertante confusione generale, anche i ceri, le candele, i vasi di fiori dell’omaggio ai piedi della statua sono diventate armi di combattimento, fornendo materia prima per prime pagine e titoli d’apertura dei telegiornali, che non hanno tardato a parlare di profanazione, oltraggio. Altrettanto coesa e unita è stata la reazione delle principali autorità, da Bernard Cazeneuve, Ministro dell’Interno, che ha ribadito la sua fermezza assoluta di fronte al minimo elemento di disturbo, a Valls e Hollande, uniti nell’indignazione per la degenerazione del pomeriggio.

Sono appena passate le tre del pomeriggio e i manifestanti più facinorosi, attrezzati di passamontagna e vestiti in nero come da tradizione, sono stati già allontanati. Ma la tensione non si allenta. La piazza resta nelle mani della polizia fin dopo il tramonto, le cariche non si fermano, né le spallate, nemmeno lo spray urticante e il gas lacrimogeno.

Scoppia qualche granata, la polizia dirige i movimenti della folla, stringendo il cerchio intorno ai manifestanti, prelevandone, non di rado in modo arbitrario, un paio qua e là, fino a un totale di più di 300 persone trascinate in commissariato e circa 200 fermi. Un paio di fotografi vengono fermati.

Sono le 17 quando nuovi fiori, altre candele cominciano ad arrivare nella piazza. Tra l’eco di un didgeridoo, l’incessante coro che urla Liberté, slogan più o meno fantasiosi, tra l’incredulità generale, c’è chi si dedica a raccogliere i vasi rotti, i fiori calpestati, le candele spezzate e a sostituirle, guardato a vista dal cordone dei poliziotti.

A due giorni dal discorso solenne di Hollande, che ha ricordato, una dopo l’altra, le giovani vittime del Bataclan, sembra ancora più assurdo assistere alle reiterate cariche di polizia contro i ragazzi scesi a manifestare contro il clima.

Nessuno stato d’emergenza può giustificare la deriva totalitarista delle forze dell’ordine di domenica 29 novembre a Parigi, la sola città dove, paradossalmente, si sono verificati scontri e violenze in occasione delle iniziative contro la COP21.

La quantità e l’attitudine del dispositivo di polizia schierato a place de la République bastano da sole a spiegare le conseguenze incontrollabili delle misure varate da Hollande e il bavaglio simbolicamente messo ai cittadini francesi durante i giorni della conferenza. Lo stesso presidente della Repubblica, subito dopo gli scontri del pomeriggio, ha prontamente dichiarato che non ci saranno più arresti domiciliari preventivi per gli ecologisti.

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“La Francia combatterà Daesh, restando la stessa Francia di sempre”, aveva detto solo due giorni fa il Presidente della Repubblica. Adesso più che in passato, si avverte la necessità di ritrovarsi, sentirsi liberi, di scendere in strada, ricominciare a pensare al futuro, di manifestare, di resistere a quella che Naomi Klein ha definito la strategia dello choc, usata per silenziare ogni protesta. Intorno alle 20, torna la calma, anche l’ultimo furgone della polizia lascia la piazza. Resta la delusione dei tanti ambientalisti, il timore che il buonumore, l’allegria, la spensieratezza delle manifestazioni della mattina non siano in grado di fare titolo e che i media riportino solo la violenza degli scontri, il sacrilego oltraggio al memoriale. Resta fortunatamente anche la voglia di resistere, di riconquistare la libertà d’espressione, di non abbandonare la lotta e non cedere alla paura e all’insensato, ridicolo, pericoloso pretesto dell’emergenza.