di Davide Banis, da Amsterdam
In seguito agli attentati di Parigi, il governo olandese ha annunciato che verranno prese contromisure «visibili e invisibili», non specificando in cosa si concretizzeranno le seconde. Tuttavia, come mi racconta Paolo Rosi – giornalista italiano per 31Mag, un quotidiano online con base ad Amsterdam che tratta di politica e società olandesi con un taglio europeo – è facile pensare che si tratterà di una stretta sulla sorveglianza, anche perché i Paesi Bassi «sono tristemente famosi per la discrezionalità dei servizi di intelligence nel violare la privacy altrui».
Ma una contromisura ancora più invisibile, poiché culturale, strisciante, spesso non dichiarata e a volte addirittura inconscia potrebbe essere il ricorso a pratiche di racial profilingg, ovverosia alla individuazione di potenziali sospetti da parte delle forze dell’ordine in base a connotati etnici.
Una pratica tanto intuitivamente controversa quanto poi comunemente accettata nei periodi di crisi che seguono i grandi attentati terroristici, come testimoniato dall’episodio Isaac and Ishmael della famosissima serie TV West Wing che, poche settimane dopo l’attentato dell’Undici settembre, sdoganava per il pubblico liberal e colto d’America l’idea che il racial profiling fosse una pratica probabilmente fastidiosa, ma sicuramente necessaria per garantire la sicurezza interna degli Stati Uniti.
La mia preoccupazione per il caso specifico olandese è motivata anche dal fatto che il 14 novembre 2014, esattamente un anno prima degli attentati di Parigi, un report di Amnesty International puntava ancora una volta il dito sull’utilizzo di questa pratica nei Paesi Bassi, sconfessata dalle autorità ma ancora serpeggiante nelle azioni delle forze dell’ordine. Problema che si innesta peraltro in un contesto più ampio di casi di malapolizia, anche a sfondo razziale, tra cui spicca il caso della morte dell’arubano Mitch Henriquez, picchiato a morte dalla Politie durante un fermo la scorsa estate.
In altre parole, una delle cose a cui bisogna prestare attenzione qui in Olanda in queste convulse settimane che seguono gli attentati di Parigi, con il vicino di casa Belgio che vede la propria capitale in uno stato di massima allerta, è il problema del razzismo, che emerge ormai in troppi episodi, anche violenti.
Ci sono stati, per esempio, i cittadini di Oranje che, lo scorso ottobre, hanno chiuso gli accessi al paese mettendo camper e barricate di traverso per impedire l’arrivo di nuovi bus di rifugiati –novelli cowboy che chiudono i carri a cerchio contro gli indiani. Oppure, racconta ancora Paolo Rosi, «l’attacco in stile KKK ad un centro temporaneo di accoglienza o il recente tentativo di incendio della moschea di Rosendal. Siamo di fronte ad una vera e propria escalation di violenze».
Il termometro politico riflette al centesimo di grado questa situazione con i più recenti sondaggi che danno il Partito per la Libertà (PVV) dell’islamofobo populista di destra Geert Wilders toccare il 38 per cento dei consensi, imponendosi così come primo partito con 18 punti di scarto sul secondo, il conservatore Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (VVD) del premier Mark Rutte, che viene stimato intorno al 20 per cento.
Giusto per dare un’idea di quale sia la caratura di Wilders («uno sciacallo», secondo Paolo Rosi), il giorno dopo gli attentati di Parigi, colui che stando ai sondaggi potrebbe essere preso in considerazione come futuro premier in Olanda twittava l’equivalenza Islam=Terrorismo. Sarà questa la tanto sbandierata schiettezza olandese? O ancora, nel marzo 2014, a L’Aja, Wilders arringava i suoi sostenitori con una finissima lezione di politica interna, dipanando la spinosa questione del multiculturalismo in Olanda al grido di: «Volete più marocchini o meno marocchini?». Inutile specificare cosa urlarono in risposta i suoi sostenitori.
L’Olanda non è soltanto la patria di quel liberalismo e di quella tolleranza per cui è comunemente conosciuta.
Esibisce anche un volto razzista, che varia dagli episodi di aperta violenza fisica, alla violenza verbale di Wilders, al più controverso – ma ugualmente significativo – caso di Zwarte Piet, il servo moro e stupido di San Nicola che con lui nella notte tra il 5 e il 6 dicembre porta i doni ai bambini, e per cui è supposta tradizione pitturarsi, per l’appunto, il volto di nero. Usanza che anno dopo anno viene sempre più criticata, specialmente dalle comunità del Suriname e dei Caraibi olandesi, in quanto retaggio di un passato coloniale dai risvolti razzisti.