Non esiste un ‘pianeta B’, dice uno slogan di chi partecipa alle campagne di sensibilizzazione in corso in queste ore. Una pressione dal basso verso il vertice seduto al grande tavolo, a decidere le sorti del nostro pianeta.
Ma noi cosa possiamo fare?
di Angelo Miotto
Il rapporto di forza, di potere, che si disegna sugli effetti disastrosi delle emissioni inquinanti è piuttosto semplice: la Terra ha esaurito il tempo a disposizione nella proporzione fra risorse a disposizione e sfruttamento delle stesse. In un’epoca di grandi parole e azioni contro il terrore armato, nello scambio di accuse a diverse latitudini in nome di concetti abusati – democrazia, religione, Occidente, scontro di civiltà – il pianeta che soffre e che mento lentamente di quello che si potrebbe immaginare va a morire è una questione presente nell’informazione e nella testa di molti cittadini globali. Ma insieme alla preoccupazione viviamo un senso di smarrimento legato al fatto che l’azione individuale, come per la guerra, necessaria dà un riflesso di impotenza generale nell’essere capaci di incidere sulle scelto che vengono poi adottate. In altri termini: quanto posso io essere un fattore determinante nella battaglia contro il soffocamento del pianeta?
Il quesito riguarda il nostro stile di vita, lo stile di vita di popoli interi, lo sfasamento fra Paesi industrializzati e tecnologicamente più avanzati, rispetto ad altri in via di sviluppo che, proprio per assecondare lo sviluppo stesso, bruciano e inquinano in un rincorrersi apparentemente inevitabile di percorsi che portano alle rivendicazioni e al diritto di dire: se avete inquinato voi per arrivare al ‘benessere’ di cui godete, perché non dovremmo farlo noi nel nostro percorso di crescita?
Il vizio, come appare evidente, sta nel manico; il sistema di produzione industriale, legato a una concezione di sfruttamento che agisce agli ordini del profitto, non si preoccupa del futuro, ma di accumulare ora e subito, semmai con sensibili quanto fale campagne di responsabilità sociale che giganteggiano su tutti i siti delle grandi società.
CSR, Corporate social responsability: come ti rendo deserto un territorio per utilizzare acqua nella produzione industriale e nel contempo apparire virtuoso on-line e nelle campagne propaganda per dire ai miei utenti che sono sensibile al rispetto e alla sostenibilità dell’ambiente. Difficile chiedere più coerenza, se si rimane all’interno del sistema del profitto e dell’anima capitalista, difficile immaginare un pianeta che ha ancora il petrolio come elemento dirimente di guerre, spartizioni, giochi di potere, rispetto a un futuro più ‘pulito’, che include anche se non tutta almeno qualche aspetto del concetto di decrescita, ovviamente sostenibile.
Cosa possiamo fare. Possiamo cambiare il nostro modo di consumare, dall’attenzione agli sprechi ai meccanismi zero waste per risparmiare o riciclare. E però non basta. Utile, ma non basta.
Aprite il vostro frigorifero, guardate quello che avete acquistato al supermercato e iniziamo a suddividere quanto spreco nel packaging dei prodotti, quanta plastica è stata sdoganata per esempio per evidenti pigrizie nel riportare i vuoti del vetro, o per evitare di inceppare i meccanismi della nostra fretta fra un flacone di detersivo usa e getta e la possibilità di acquistarlo sfuso sempre nel medesimo contenitore. Cose piccole, ma importanti. Guardiamo cosa mangiamo; al di là degli avvertimenti dell’Oms sulla carne rossa sappiamo quanta acqua viene destinata a un mercato esploso negli ultimi decenni per una dieta che a noi appare ormai normale, ma che già i nostri padri, non parliamo dei nonni, ci raccontano essere qualche cosa di impensabile. E non solo per ‘i tempi di guerra’ che limitavano i generi alimentari, ma per una diseducazione – la nostra – al gusto e alle quantità che è stata vittima della spinta della produzione, quindi al consumo con la potente macchina della pubblicità/propaganda. Leggiamo le notizie sull’inquinamento atmosferico (il pm10 in pensione ormai ha ceduto il posto al pm 2,5 sempre più insidioso) e domandiamoci perché migliaia di morti precoci per inquinamento, per esempio nella pianura padana, non scatenano – lasciatemi il paradosso – legislazioni d’eccezione come se fossimo sottoposti a un attacco armato per le strade delle nostre città.
Alla fine, mi diceva uno pneumologo affermato, il pianeta saprà reagire e l’uomo stesso sarà oggetto di mutazioni, perché da sempre mutanti sviluppiamo la capacità di adattamento. Ma alla fine significa secoli e anche se in una ricerca sugli effetti dell’uranio impoverito usato ad ampie mani su tanti territori in guerra sarà riassorbito – dicono gli esperti – e smaltito dalla forza trasformatrice della natura, gli effetti sulla popolazione e nel breve e medio periodo sono devastanti.
Quello che possiamo fare è prendere coscienza di essere sotto attacco. Quello che possiamo fare è esigere risposte, creare tipologie di deterrenza nei nostri codici per punire chi inquina, chi non rispetta e chi accorcia le nostre vite, ben sapendo che sono gli interessi di potenti, profitto, o di mafie, profitto e controllo territorio, che dettano legge.
Le pratiche alternative sono il seme da far germogliare nelle nuove generazioni, che dimostrano già di conoscere i concetti di spreco e di attenzione, un grande passo in avanti. Ma in questo nostro sistema di democrazia rappresentativa, se noi deleganti non siamo duri e netti rispetto a quello che vogliamo facciano i delegati non possiamo che rimanere impotenti a respirare veleno. In un gioco di immaginazione figuriamoci cosa vorrebbe dire sfilare in centinaia di migliaia chiedendo il diritto a respirare, a vivere, il diritto a immaginare – faticosamente – una riconversione epocale di tanti, troppi aspetti del vivere quotidiano, delle nostre abitudini, di ciò che è semplice e facile da consumare.
Non bastano le frasi a effetto dei ‘grandi’ della terra, che sono infinitamente piccoli nel non saper interpretare i diritti di milioni, miliardi di persone nel nome di un concetto di progresso che poggia su fondamenta che oggi conosciamo come profondamente sbagliate.
E non c’è obiezione che tenga sull’impossibilità di compiere una rivoluzione, i cui effetti non sono nel breve periodo, ma che darebbe un senso profondo al nostro essere figli di questa adorabile e deturpata Pachamama. Ci saranno sempre stuoli di servi cinici a dirci che ‘non è possibile’. In fondo sappiamo anche questo.
Non ci sono petizioni digitali che tengano. Ora più che mai è una questione di corpi e di voci.