A poche ore dal sospirato vertice romano tra Pisapia e Renzi, ci sembra il caso di lanciare qualche monito all’attuale classe dirigente del centro-sinistra milanese, servendoci di qualche paragone storico.
di Jacopo Perazzoli
Nell’estate del 2010 Pierluigi Bersani era a capo del Partito democratico, Nichi Vendola aveva ancora un certo seguito a sinistra, mentre Antonio Di Pietro veniva ancora considerato un leader da tenere in considerazione. Il centro-destra aveva in Silvio Berlusconi il suo leader naturale, che faceva di Milano il fortino a suo dire inespugnabile. Anche all’ombra della Madonnina le cose erano ben diverse: Giuliano Pisapia era soltanto un aspirante candidato sindaco, Giuseppe Sala lavorava in Comune con il centro-destra, mentre degli arancioni non si vedeva ancora l’ombra.
Ragionando sulle candidature per le elezioni comunali del 2011, i dirigenti del Pd, da Roberto Cornelli a Pierfrancesco Majorino, intendevano dar vita ad un progetto civico, ossia una candidatura al di fuori dal perimetro dei partiti, in grado di unire esperienze e risorse diverse provenienti dalla città, dalle professioni, dall’economia, dal sociale. A leader di questo piano d’azione venne individuato Stefano Boeri, «archistar» e volto parecchio noto a Milano. In pratica, si stava cercando, come si è spesso fatto nella storia recente del centro-sinistra milanese (do you remember Ferrante?), l’uomo che, non essendo ascrivibile al mondo tradizionale del progressismo cittadino, potesse, grazie al suo ascendente personale, far convergere sulla coalizione guidata dal Pd i consensi di una parte comunque rilevante come quella della borghesia tradizionalmente moderata.
Nel 2015 la situazione è completamente diversa. Si è sviluppata, a livello nazionale, l’ondata renziana che ha portato ad una profonda trasformazione del Pd e ad una progressiva sparizione della coalizione di centro-sinistra del 2013 con cui vennero affrontate le elezioni politiche del 2013.
Berlusconi pare ormai essere al traino dei Salvini e delle Meloni di turno, come conferma la manifestazione di Bologna dell’8 novembre. In questo quadro profondamente mutato in tutti i suoi fattori è chiaro che l’anomalia rappresentata dalla Milano di Pisapia, dove il primo cittadino non è ascrivibile al nuovo corso politico nazionale, deve, nella visione dell’establishment renziano, venire riassorbita.
È tuttavia curioso che, per motivare questo pur legittimo disegno politico, vengano utilizzate delle argomentazioni assai simili con quelle utilizzate, in tutt’altra fase, da un tutt’altro gruppo dirigente del Pd milanese. Così come dicevano Cornelli e Majorino di Boeri, così Pietro Bussolati e i renziani locali sostengono che, dopo la positiva esperienza arancione, si debba ricercare qualcosa di diverso. Le cronache parlano infatti di come i democratici intendano candidare, nel nome di un’alleanza civica, Giuseppe Sala. Tanto Boeri era da candidare perché considerato un valido architetto, quanto Sala sarebbe da proporre perché ha dimostrato di saper gestire una partita complicata come l’Expo. Dice Bussolati (fonte «Affaritaliani», 3 novembre 2015): «È un fatto che abbia realizzato un progetto aperto e apprezzato nel mondo, la più grande festa popolare della storia di Milano che ha avuto come titolo “Nutrire il Pianeta”». Dunque, non conta tanto quello che uno può avere in testa di realizzare per la Milano del futuro, quanto che abbia una certa notorietà derivante da un’esperienza precedente.
Il problema è che, non per fare i maestri o i gufi, la politica è ben altra cosa. Anche Pisapia sembrava essere meno noto rispetto a Boeri, ma attorno all’avvocato si è costruito un progetto politico valido ed inclusivo, che ha saputo parlare alle varie anime della sinistra cittadina, senza chiudere alcuna porta verso la tradizionale borghesia milanese. Nessun dubbio che Sala saprebbe parlare con quest’ultima, ma siamo sicuri che sia in grado di convincere il corpo della sinistra meneghina? Di Pisapia non dobbiamo dimenticare questo: la capacità di includere nel suo disegno le più disparate anime che, andando unite, sono riuscite a togliere a Moratti lo scettro di primo cittadino e, al tempo stesso, a dar via alla conclusione del ventennio berlusconiano.
Non si tratta di chiudere i candidati all’interno di uno steccato rigido; si tratta, semmai, di individuare una persona coerente con un progetto di centro-sinistra e non l’individuo «che ci fa vincere».
Anche perché, è la storia che sta lì a dircelo, poi spesso non si vince. La candidatura di Umberto Ambrosoli non ci ricorda proprio nulla? Chi non rammenta come nell’autunno 2012 tutti i dirigenti locali e nazionali – da Pisapia a Bersani, da Renzi a Vendola – lo rincorressero perché ritenuto l’uomo in grado di parlare anche al centro-destra? Noi quella pagina la ricordiamo bene; il problema è che quella lezione non sembra essere tornata alla mente dalla maggioranza renziana del Pd milanese, così come ad una porzione del mondo civico arancione.