Perché non ci sono foto simboliche, sul piano collettivo, di quanto è accaduto a Parigi? Perché portiamo a casa solo la paura di essere attaccati in qualsiasi momento accettando la soluzione dei bombardamenti come unica possibile? Perché la nostra civiltà non è più interessata a produrre conoscenza e anticorpi tramite il linguaggio fotografico?
di Enrico Natoli
(In copertina: La biblioteca di Sarajevo parzialmente
distrutta nel 1992, fotografia di Mario Boccia)
La risposta per me c’è e so certamente che non è l’unica. Scrivere di fotografia è sempre un esercizio complicato e difficile in cui la possibilità di scrivere scemenze è alta ma spero che questo testo sia utile a promuovere un confronto sulle pagine di Q Code Magazine.
La mia risposta dunque è questa: la fotografia oggi, e non da oggi, è con decisione al servizio di chi detiene il potere. Un potere che non ha bisogno, anzi teme, il linguaggio fotografico come veicolo di informazione, come necessaria aggiunta di un punto di vista.
Non c’è mai stata come ai giorni nostri la possibilità per chiunque di produrre immagini. Finalmente la fotografia ha perso il suo carattere elitario che l’ha resa fino a poco tempo fa una professione o un hobby dai costi proibitivi per la maggior parte di noi. Allo stesso tempo, nonostante questo fatto nuovo, la fotografia ha perso una delle sue caratteristiche più importanti: chiedere a chi guarda di metterci un pezzo, di essere parte attiva di un processo lungo e spesso faticoso.
Davvero, non mi interessano i dati tecnici che metti accanto alle foto. 1/125 f.8 scattata con l’ultimo modello di Canon. Non mi interessa niente. Faccio volentieri a meno del tuo nome scritto in calce all’immagine, in bella calligrafia, con l’aggiunta del sostantivo “photographer”. Ti chiedo di trasmettermi un’emozione, un’informazione. E che sia la foto del tuo gatto, di quello che hai mangiato a pranzo o il ritratto di chi hai davanti in un vagone di metropolitana affollato, ti chiedo di non mostrarmi una foto asettica, da catalogo, ma di metterci del tuo. Farmi entrare nel tuo mondo e convincermi che valga lo sforzo. Voglio una interpretazione della realtà attraverso i tuoi occhi.
Questo inciso riguarda certamente la quantità di reti sociali che ormai fanno parte, in questa parte di mondo, della nostra vita. Ma cosa succede se lo applichiamo alle fotografie che dovrebbero informarci?
Faccio un salto temporale passando ai primi anni ’90, quando son state combattute la guerra nella ex Jugoslavia e la prima guerra del Golfo. Nel primo caso la rappresentazione fotografica fu adeguata. L’assedio di Sarajevo ha le sue immagini simboliche a partire dalla biblioteca parzialmente distrutta. La coda per un pezzo di pane in un emporio dagli scaffali vuoti; il taglio dei rami di un albero in una città innevata; la carrozzina usata per fare rifornimento di acqua con le taniche; la corsa verso un punto ritenuto più sicuro poco prima dello scoppio di una granata. I giornali, almeno alcuni, non furono avari di rappresentazioni di questo tipo. Noi tutti abbiamo potuto identificarci con chi si occupava di reperire pane e acqua per sé e per i propri cari. Con chi organizzava corsi di computer per bambini in aule improvvisate, un modo come un altro per credere in un futuro, per non arrendersi alla morte della guerra. Abbiamo avuto immagini sotto gli occhi.
Nel caso della guerra del Golfo la situazione si ribalta. L’immagine che ricordiamo tutti, quella del primo bombardamento di Baghdad, quella ripresa notturna che sembra un videogioco, è un fotogramma tratto da un video. Da lì per me inizia la messa a punto di un meccanismo informativo che dura ancora fino ad oggi. Gatti su facebook a volontà, sul resto decidiamo noi cosa passa e cosa no. E quel “noi” non è la redazione di un giornale.
Abbiamo tutti letto della crisi greca, ma abbiamo immagini che ce l’abbiano raccontata con efficacia? Esistono immagini che descrivano l’impatto della devastante crisi economica sulla popolazione? Perché non ci sono immagini di Parigi?
Ancora abbozzo una risposta. Non è più richiesto un processo di identificazione, di vicinanza, con i soggetti fotografati. Anzi, di più. La fotografia viene usata per generare l’effetto opposto. Si chiede a chi guarda di rimanere a distanza, di fare da spettatori passivi, un po’ come avviene con la tv. In ogni caso di non porsi domande.
Se è così trovo funzionale a questo discorso l’immagine del bambino curdo arrivato morto su una spiaggia che ha popolato le pagine dei giornali virtuali e non di tutto il mondo. Per qualche giorno è sembrato che quella foto dovesse segnare un prima e un dopo. Capi di governo che spalancavano le frontiere in deroga a trattati europei altrimenti ferrei e irremovibili; editor fotografici di quotidiani nazionali che parlavano di una fotografia che scuote le nostre coscienze e ci obbliga a non girare più lo sguardo da un’altra parte.
Che fossero posizioni dettate da un moto “di pancia”, se non un tentativo di scagionarsi da un sottostante senso di colpa, l’ho sospettato da subito. La conferma, seppur senza pretesa di certezza, l’ho avuta dopo gli eventi di Parigi che hanno spazzato via qualsiasi altro evento recente. Dell’ondata migratoria definita eccezionale si son perse, ancora una volta, le tracce. Rimane solo quell’immagine di un bambino su una spiaggia.
Perché quell’immagine è funzionale al progetto di non identificazione? Perché ritrae un cadavere. Come è possibile identificarci a lungo con un cadavere, per quanto vestito proprio come uno dei nostri figli? Per quanti sforzi possiamo fare non ce la possiamo fare.
Ritrovo la stessa distanza in un numero di Epoca del 1991, uno speciale sulla già citata Guerra del Golfo. In copertina un titolo roboante: “100 immagini da non dimenticare”. A pieno formato una foto in posa del generale Schwarzkopf circondato dai suoi soldati in una composizione rigorosamente multietnica. Tutti sorridenti. I nostri. I “buoni”.
All’interno del volume i “buoni” sono ripresi quasi sempre in posa, durante le esercitazioni, al ritorno in patria. Le scene di guerra sono riprese da lontano; spesso si ricorre a fotogrammi presi da video. I “cattivi”, invece, sono morti – spesso carbonizzati – o prigionieri. Permettere una qualsiasi identificazione è complicatissimo, se non – forse – con il soldato che sta partendo per il fronte e abbraccia la fidanzata, o la moglie, con una lattina di Coca Cola in mano, in un’immagine che sembra prodotta sul set di un film hollywoodiano.
Perché non esistono immagini della Grecia, di Parigi, e andando più in là con la memoria, degli attentati a Londra e Madrid, per restare nella nostra piccola fetta di mondo? E dell’intervento in Afghanistan? Intendo immagini che resistano al tempo e diventino un patrimonio culturale collettivo. Perché non ne abbiamo?
Perché non è richiesto più a chi guarda di identificarsi. Perché ci è imposto di continuo di stare alla larga dai processi decisionali: l’euro è irreversibile, la guerra è inevitabile e così via. Per un cadavere su una spiaggia posso provare orrore, specie se si tratta di un bambino. Ma non si può vivere a lungo con quell’orrore addosso: la nostra mente conosce mille modi per anestetizzare quella sensazione, allontanarne il ricordo. Così, insieme all’orrore, se ne va anche il resto. La curiosità di chiedersi come sia finita una vicenda, l’interesse per la sorte di un popolo che scappa da una guerra. Rimane al massimo che io, come singolo, ho una sorte diversa da quel bambino e non posso – o non devo – fare nulla per modificare questa realtà.
Così la fotografia perde una delle sue funzioni prevalenti: quella di creare o sostenere dei movimenti di opinione collettivi. C’è senz’altro in giro per il mondo chi fotografa ancora con quest’intento ma gli spazi per le immagini che obbligano davvero a fermarsi e a pensare si sono ristretti in maniera inversamente proporzionale alla diffusione degli apparecchi fotografici e delle fotografie.
La fotografia, se lasciata libera di esprimersi, con il suo linguaggio immediato che non richiede neanche di saper leggere o scrivere, non è uno strumento funzionale al potere. La mancanza di immagini simboliche condivise è un sintomo di quanta poca libertà ci sia oggi in giro per il mondo, anche nel nostro. Trovatemi dieci immagini simboliche degli ultimi quindici anni, che tutti riconoscano immediatamente senza bisogno di leggere una didascalia e – giuro – mi rimangio tutto.