Björn Larsson: bisogno di libertà

di Andrea Staid

AS. Vorrei concentrare la nostra conversazione su un suo lavoro particolare rispetto alle sue opere letterarie, ovvero sul testo “Bisogno di libertà”(Iperborea, 2009), un saggio molto interessante che ha stimolato su vari fronti le mie idee libertarie.
Fin dalle prime pagine mette in chiaro che per essere realmente liberi dobbiamo sapere dove siamo, perché chi è smarrito, chi non ha il senso della realtà, chi ignora come va il mondo non è libero. Da sempre sono convinto che essere liberi non è sinonimo di lasciarsi andare senza meta e, come chiarisce nel testo, per essere liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause incontrollabili.
Di mestiere faccio l’antropologo e devo fare i conti con il fatto che questa disciplina che amo sia nata e si sia sviluppata su spinta coloniale, che la maggior parte degli studi della prima metà del novecento nascano su una forte privazione della libertà delle popolazioni indigene.

 

La nostra libertà di occidentali è stata in larga misura conquistata a scapito delle popolazioni che non potevano difendere la propria, questa problematica è centrale anche oggi. Come pensa che possiamo riequilibrare la “nostra” libertà con quella dell’altro?
Nel mio libro, parlo soltanto marginalmente della libertà di popoli, di nazioni o di gruppi. Rispondere alla sua domanda, senza fare generalizzazioni abusive, richiederebbe un altro libro. Però non sono sicuro che la libertà dell’Occidente, per altro abbastanza relativa, sia stata conquistata principalmente sulle spalle di altre popolazioni. Il nostro benessere materiale, sì, ma la libertà, non tanto. Prendo tre esempi di gruppi che, nel Novecento, hanno conquistato più libertà all’estero o in altri paesi più poveri, senza danneggiare altre popolazioni: gli operai, i neri negli Stati Uniti e le donne. Di fatto, non c’è un rapporto necessario tra ricchezza e libertà: sarebbe piuttosto il contrario. Sono normalmente i ricchi e i privilegiati che hanno maggiormente da perdere economicamente e che sono contro la libertà; non il contrario.

 

Nel libro scrive che per essere liberi bisogna sapersi immaginare altri modi di vivere, di pensare, di sentire. Non basta sperare, ma come scrive Marc Augé che cosa sta succedendo al nostro concetto non tanto di futuro ma di avvenire? Où est passé l’avenir ? L’avenir a pratiquement disparu (…)
Non sono d’accordo con Augé su questo punto. Mi sembra che parliamo molto dell’avvenire, per esempio per quanto riguarda i cambiamenti climatici. Il programma iniziato dall’ONU per ridurre la povertà e la miseria nel mondo, idem. Purtroppo parliamo di avvenire ma sopratutto in termini negativi. Avere paura o essere preoccupato dell’avvenire non è la stessa cosa che ignorarlo. Si può forse anche dire che il futuro si sia accorciato, paragonato a qualche decennio fa. Pochi, almeno in Occidente o in Asia, credono sul serio che ci sarà una vita dopo la morte, non importa se in Paradiso o all’Inferno.

Un capitolo estremamente interessante del testo che il mio profondo antimilitarismo ha amato molto è quello dove ci racconta la sua esperienza di renitente alla leva. Mi ha realmente colpito quando afferma che in carcere, dove ha scontato la sua diserzione alle armi, si sentiva più libero che in caserma. Ci può spiegare perché?
In carcere, almeno nel carcere dove ero io, nessuno ha provato a indottrinarmi, a educarmi, a manipolarmi, a farmi obbedire. Dovevo lavorare otto ore al giorno e vestirmi con abiti scelti dalla struttura carceraria, però la mia testa e – in gran parte – il mio cuore furono lasciati in pace. Niente di simile invece è successo durante i tre o quattro giorni in cui ho dovuto fare il soldato, ovviamente prima di rifiutare e andarmene a casa. Alla caserma, lo scopo era addirittura di fare di noi un gruppo omogeneo e obbediente, di cancellare la nostra individualità e farci o forzarci ad accettare, senza spirito critico, che altri prendessero decisioni per noi. Da qualche parte Trotsky diceva che non si poteva fare avanzare un soldato senza che avesse una pistola puntata alla testa. Anche questa è una generalizzazione, certo: nella storia molti soldati si sono arruolati volontariamente per andare in guerra, però resta vero che la diserzione, in tempo di guerra, è stata punita con la pena di morte, anche nei paesi democratici. Voglio precisare comunque che non sono né un pacifista radicale né un antimilitarista assoluto. Sarei favorevole alla leva militare obbligatoria, se soltanto il servizio di guerra fosse facoltativo. Non posso accettare che qualcun altro, sia esso un governo democraticamente eletto o una maggioranza relativa, possa decidere quando io – o un altro – debba sacrificare la mia vita per una causa, un’ideologia, una religione o una nazione.

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Perché uno scrittore realmente libero deve avere un’assoluta diffidenza nei confronti del potere costituito?
Per molte ragioni, di natura un po’ diversa. Innanzitutto, il potere è quasi sempre autoritario, anche quello eletto democraticamente, mentre l’aspirazione alla letteratura – forse si dovrebbe dire alla bella e buona letteratura – è di rimettere in questione, tramite l’immaginazione, tutte le autorità. Questa non è soltanto una battuta, ma il fatto è che la letteratura, come immaginazione e finzione, costituisce un esercizio di libertà.
Inoltre, il potere deve sempre generalizzare, mentre la letteratura è particolare e precisa. Non è un caso che la letteratura chiamata in Francia ”roman à thèse” ci faccia morire di noia. O che la letteratura ideologica non sopravvive. Come ha detto Sartre, con il suo stile brillante: ”Non c’è una letteratura a difesa della tirannia, né della pena di morte”. Gao Xingjian, premio Nobel 2000, che sapeva di cosa parlava, diceva: ”L’esperienza mi ha insegnato che ogni genere di associazione politica è oppressiva”. Non vorrei sostenere che lo scrittore, come cittadino, debba tenersi lontano dalla politica, ma credo piuttosto che debba mantenere un’indipendenza feroce nella sua letteratura.

In una conversazione con Larsson non può mancare il mare, presente per il lettore del suo libro sin dalla copertina. Ma è nel cuore del libro che ci spiega la vicinanza tra la sua esperienza in mare e il bisogno di libertà. In barca si può vivere con poco e quindi si riesce ad avere più tempo per se stessi, fattore importante nella ricerca di libertà. Affermo sempre che io, trentenne precario che vive in Occidente, ho bisogno soprattutto di tempo più che di denaro, il tempo è la vera merce rara della contemporaneità. Lei collega questa sparizione del tempo con il comfort, con il fatto che la frenesia del consumo e della comodità sia un grande nemico della libertà, perché?
In inglese, c’è un detto che dice ”keep it simple, stupid!”. Questo è un saggio consiglio dato spesso ai navigatori che preparano le loro barche a salpare. L’idea è di non riempire la barca di attrezzature elettroniche e tecniche di ogni sorta che si rompono facilmente. Lo stesso consiglio potrebbe anche andare bene nella vita. Perché comprare una macchina che può andare a 200 all’ora, quando il limite di velocità è di 130 al massimo? Perché vivere in due in una casa da 200 metri quadrati, che costa un sacco di soldi che bisogna guadagnarsi, quando la metà sarebbe sufficiente? Recentemente, avevo letto un articolo scritto dalla mamma di una ragazza di 21 anni. La mamma, in accordo con la figlia, aveva fatto l’inventario dell’armadio della figlia, trovando qualcosa come 37 borse, 56 paia di scarpe e più di cento gonne. Si può vivere con meno, no?

Nelle società primitive difficilmente troviamo la separazione tra vita e lavoro, si lavorava per la comunità non per produrre surplus o per un salario. Lei rifiuta la nozione di tempo libero esattamente come Pierre Clastres ci racconta facevano gli amerindiani nella foresta, ovvero non potevano pensare a questa separazione della vita (lavoro-non lavoro-tempo libero) perché ammetterebbe l’esistenza di un tempo non libero….
Rifiutare o resistere è una cosa, realizzare un’altra. Sono convinto che tutti, se potessero scegliere, preferirebbero un lavoro fonte di gioia e passione; un lavoro che contribuisca pienamente al loro sviluppo personale, piuttosto che una maniera di fare soldi per poter approfittare del ”tempo libero”. Non sono mai stato tentato dal marxismo come ideologia e, ancora meno, come sistema politico, però, su un punto, Marx aveva ragione: il lavoro deve avere dignità e il lavoratore dovrebbe avere il diritto di sentirsi utile e importante di là dell’appropriatezza del suo stipendio. Normalmente, però, è difficilissimo fare del proprio lavoro anche un’attività da ”tempo libero”. Il problema non è soltanto che molti lavori sono sporchi, ripetitivi e duri; ma c’è anche una mancanza di volontà nel riorganizzarci, nel pensare il lavoro in altre maniere, piuttosto che pensare soltanto in termini di soldi ed, eventualmente, di sicurezza. Io sono stato fortunato in questo senso. Ho sempre lavorato con e per la lingua e la letteratura, senza quasi mai avere un altro obbligo di presenza come lezioni o riunioni. In Svezia, ci sono addirittura due forme di contratto di lavoro: uno si chiama l’obbligo di presenza, l’altro invece è l’obbligo di fiducia, cioè l’obbligo a fare il proprio lavoro – bene – però in gran parte quando e dove uno può e vuole. Purtroppo, il contratto di fiducia è poco frequente. Dovrebbe essere più usato, secondo me.

L’uomo è un animale relazionale, per vivere necessita dell’altro, per questo non si può essere liberi da soli. Credo che sia molto importante affermare questo concetto soprattutto nel mondo occidentale, dove assistiamo a una deriva dell’individualismo. Questo deriva causa una distruzione della possibilità di una reale libertà, perché il nostro bisogno di libertà per essere appagato ha bisogno di due ingredienti fondamentali, l’uguaglianza e la reciprocità. Quindi aveva ragione il vecchio Bakunin, non ha senso usare la parola “libertà” se non per definire la libertà degli uguali?
Sì, però dobbiamo fare attenzione alla retorica. Il concetto di libertà è uno dei pochi che porta soltanto connotazioni positive. Neanche l’amore può farle concorrenza: l’amore ci rende, come è noto, ciechi e pazzi! Il rischio con formule eleganti e incisive come quella di Bakunin è che nascondano la complessità e la difficoltà di vivere la realtà. È proprio per questo che ho provato, nel Bisogno di libertà, a non cadere nella trappola della libertà a tutti costi e ad ammettere che nella vita bisogna scendere a compromessi, se non compromissioni. Per essere più concreto, posso immaginare due persone, due amici o una coppia, che siano molto diversi fra loro e che, in questo senso, non siano ”uguali”. Però questo non impedisce loro di rispettare se stessi e il bisogno di libertà di ciascuno.

Bjorn Larsson sur le port

Larsson sur le port

 

Altro concetto fondamentale che viene toccato nel testo è quello dell’identità. Nei miei scritti insisto molto sull’importanza di una decostruzione sistematica di identità in cemento armato, perché sono convinto che la chiusura identitaria crei esclusione e negazione di libertà. Mi sembra di aver capito che anche lei vede una dura relazione tra identità forti e libertà, ci può spiegare il suo concetto? E perché scrive che la nazionalità non può essere un criterio identitario?
Non ho scritto, mi sembra, che la nazionalità non possa essere un criterio identitario. Difatti, lo è spesso, troppo spesso … però formalmente, non lo è veramente in profondità. Sono svedese, ho il passaporto svedese però ci sono molti svedesi con i quali non ho niente in comune. D’altra parte, ho amici italiani, francesi e inglesi con i quali condivido tutti i valori fondamentali della vita. In Svezia, purtroppo, abbiamo adesso anche noi il nostro partito xenofobo, populista e meschino, che prende intorno al quindici percento dei voti. Loro aspirano a voler difendere la ”svedesità”, ovvero la tradizione e i valori svedesi. Però quando uno chiede loro in che cosa consistano veramente questi valori che chiamano ”svedesi” non sanno rispondere. La stessa cosa vale ovviamente per l’Italia, anzi forse ancora di più, visto che è un Paese giovane, una nazione in costruzione. Mi ha sempre stupito che in Italia la prima domanda che ti fa la gente incontrandoti, prima del nome, è ”Da dove viene?”, come se il luogo fosse determinante per l’identità e la personalità. Non lo è, ovviamente. Avendo vissuto per molto tempo in quattro o cinque Paesi, penso di essere in grado di dire con qualche certezza che ci sono italiani, svedesi, danesi, irlandesi o francesi ”tipici”, ovvero quelle persone che incarnano un tipo di personaggio che non si incontra altrove… tranne quando loro sono in viaggio! Però la cosa importante da ricordare è che loro, i ”tipici”, nel loro Paese sono una minoranza! È molto pericoloso e discutibile eticamente parlare di tutti gli arabi, gli ebrei o i cinesi come gruppi omogenei. Non lo sono!