I 51 giorni più lunghi

Rovine e resistenza a Gaza.

di Costanza Pasquali Lasagni

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

 

“Why Gaza”? Inizia così il libro di Max Blumenthal “The 51 day war. Ruins and resistance in Gaza”, con una domanda che sembra scontata ma che scontata non è. Già, perché proprio Gaza?

Si comincia entrando a Erez. Impossibile non vedere il muro, le mitragliatrici automatiche poste sulle varie barriere, e la mongolfiera di segnalazione che galleggia placida nel cielo sopra il posto di confine. Non scappano a nessuno, sarà che si sta così attenti, in quei minuti, a non andare dalla parte sbagliata, a notare tutti i particolari, certi di mille telecamere e occhi addosso. In sottofondo, il ronzio dei droni.

Io, che di solito quando ero a Gaza ero in una macchina blindata, o in ufficio, o in un luogo sicuro al chiuso, raramente mi accorgevo dell’incessante traffico dei droni sopra la nostra testa. I colleghi gazani invece se ne accorgevano eccome, e la mattina, mentre R. preparava tè e caffè per tutti e S. era in arrivo con i manoush caldi di forno, era tutto un raccontarsi della nottata appena passata, specie se si era in attesa di una rappresaglia israeliana dopo l’ennesimo razzo sparato a casaccio dalla Striscia. M. ricordava come, a mesi di distanza, la sua bambina aveva ancora paura di andare in cucina da sola e quando sentiva i droni si stringeva alla sua gamba. Io, che ho un sonno di piombo, mi vergognavo a dire che non avevo sentito nulla e i miei colleghi ridevano.

Questi e altri ricordi intensi e vividi mi tornavano alla mente man mano che scorrevo le pagine del libro di Blumenthal. Perché, purtroppo o per fortuna ogni singolo giorno di quei lunghissimi 51 giorni è ormai inciso in tutti noi.

Attaccati alle news, ai telefoni, ai messaggi, dal lato sicuro del confine, abbiamo tenuto il fiato, e a volte, ma non sempre, le lacrime, senza soluzione di continuità per sette settimane. Con questo libro, mi sembra di averlo finalmente ripreso, il respiro. Finalmente c’è tutto. Finalmente qualcuno che mette insieme i pezzi, e che li presenta, chiari e limpidi.

Scrittura lucida, chiara, semplice. Analisi profonda e di ampio spettro. La storia dell’ultima guerra non si limita a quei 51 giorni di terrore, dal 7 luglio al 28 agosto, e Blumenthal compie un enorme compito di restituzione della verità con questo approccio. Il contesto pre-guerra lo ricordiamo bene. Il sequestro e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani che hanno tenuto le due nazioni della terra contesa con il fiato sospeso per settimane, per poi sapere che l’intelligence israeliana sapeva della loro morte immediata, ma aveva deciso di tenerla nascosta per sfruttare l’onda emotiva per i fatti che sarebbero seguiti. La morte del piccolo Mohammed, bruciato vivo come ritorsione di quelle tre morti. Beit Hanina e Shoufat a ferro e fuoco. Hebron e Ramallah sigillate. Le due guerre precedenti.

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I fatti sono analizzati e presentati al lettore, che sia familiare o no con l’argomento, è facile seguire e capire. Dai punti del saltato cessate il fuoco e l’inizio dell’invasione di terra, all’analisi della battaglia di Shujayeh, quella terribile domenica 20 luglio, all’analisi della dottrina Dahyeh e alla direttiva Hannibal, dietro il Black Friday della devastazione di Rafah, l’1 agosto, Blumenthal descrive tutte le fasi della cosiddetta “tosatura del prato”, perifrasi con la quale l’amministrazione americana aveva appoggiato l’intervento israeliano, in quanto, appunto, “limitato” come una rifinitura di un giardino. Potremmo argomentare ad libitum sull’appropriatezza di una tale comparazione quando si parla di guerra come se fosse un’attività ricreativa. La potatura si rivela presto nella sua interezza: una strage attentamente pianificata, e al tempo stesso un’operazione in cui gli israeliani si sono trovati a volte impreparati di fronte alle aumentate capacità militari di Hamas. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: violenza sproporzionata, attacchi intenzionali ai civili, uso di civili, inclusi bambini, come scudi umani, quartieri sotto assedio. Perché alla fine nessuno è freddo e lucido, la guerra non è una partita di scacchi in cui tutti sono calmi e razionali e la sensazione che si ha leggendo è che la mano sia sfuggita a tutti, consapevolmente, tante volte. Sempre troppe. “Non è affatto un’operazione chirurgica”, ammetterà in un fuori-onda il Segretario di Stato americano Kerry.

Il report di Breaking the Silence sulle testimonianze dei soldati israeliani durante guerra è duro, durissimo. Duro da leggere, da digerire, ma importantissimo. Come importantissimi sono i report e gli appelli di Amnesty International, Human Rights Watch, Nazioni Unite, sulle esecuzioni extragiudiziali di Hamas di presunti delatori palestinesi, sull’uso di bambini come scudi umani da parte di entrambi gli attori e che entrambe le parti possono aver commesso violazioni tali da ammontare a crimini di guerra, cioè crimini contro i civili che, in ambito bellico, costituiscono un’arma di guerra e una delle più gravi violazioni dei diritti umani. Perché, forse fa sempre bene ricordarlo, in guerra non ci sono buoni e cattivi, mai. Perché la guerra dei giusti non esiste. Ci sono quelli dietro il pulsante, e quelli che dalle bombe al massimo possono cercare di scappare.

Max Blumenthal offre uno dei racconti più dettagliati e chiari sulla guerra dello scorso anno, e non bisogna essere un esperto di guerra, o di questioni mediorientali, per leggere il suo libro.

Per capire che le vere vittime di questa guerra, come di tutte le guerre, sono i civili, di cui racconta storie bellissime, umane e strazianti, che non possono lasciare indifferenti. E che è sulla loro pelle che si gioca a vedere chi è il più forte. “La Striscia di Gaza è un ghetto di bambini”, scrive Blumenthal, molti dei quali non sono mai usciti dalla Striscia. Molti dei quali, se non tutti, si aspettano che la violenza a Gaza sia una ciclico, ineluttabile rito di passaggio, contribuendo così all’idea che “certi posti siano segnati”, senza speranza. Il libro di Blumenthal fa ancora una volta chiarezza, spiegando perché Gaza sia sistematicamente usata come campo minato, pronto ad esplodere, e a chi serva questa narrativa.

A Natale si regalano tanti libri, di solito favole felici dal lieto fine.

Per una volta, potremmo pensare di regalare un po’ di verità, e rendere giustizia a chi da quelle bombe non è riuscito a scappare.