Adua: intervista a Igiaba Scego

Intervista a Igiaba Scego su suo ultimo libro Adua

di Gabriella Grasso

Nel suo ultimo libro intitolato Adua (Giunti, euro 13) la scrittrice italosomala Igiaba Scego racconta due storie parallele: la prima si svolge negli anni 30 ed è quella di Zoppe, un uomo somalo che grazie alla sua conoscenza delle lingue verrà “usato” (il verbo non è scelto a caso) dal regime fascista come interprete. La seconda è quella di sua figlia Adua, che negli anni 70 arriva a Roma con il cuore pieno di speranza. L’Italia polverizza i sogni di Adua così come ha fatto con quelli di suo padre. Eppure, nel finale, la speranza riappare. Ne abbiamo parlato con l’autrice.

 

In Adua si parte dagli anni del colonialismo fascista (con la storia di Zoppe); si passa attraverso l’emigrazione somala degli anni 70 durante il regime di Siad Barre (con le vicende di Adua); si arriva alle migrazioni dei nostri giorni (con il personaggio di Titanic, un giovane che approda in Italia dalla Somalia e che sposerà la protagonista). Sembri voler suggerire che c’è un filo che collega questi eventi, è così?

«Sì, perché in parte il nesso c’è. Lo vediamo con quello che sta succedendo nel mondo. Il colonialismo, lo scontro fisico che c’è stato tra Africa ed Europa (dove quest’ultima è stata carnefice, ruolo che non ha ancora del tutto sviscerato) hanno delle conseguenze ancora oggi. Molti Paesi africani si portano dietro le problematiche di quel periodo. Le guerre che si fanno oggi sono originate, oltre che dalla vendita delle armi, dall’impreparazione di una classe dirigente che si è formata subito dopo il colonialismo e sotto la cappa coloniale. I ragazzi eritrei e somali che arrivano a Lampedusa provengono da quel passato. La Storia è sempre collegata e volevo farlo capire attraverso le relazioni tra i miei personaggi».

Dici che il nesso c’è, ma solo in parte…

«Voglio dire che con il tempo ogni Paese produce, a partire dal proprio passato, altre problematiche. Su situazioni fragili e precarie se ne innestano altre. Il post colonialismo africano è morto quasi subito: già negli anni 70 le classi dirigenti che avevano portato all’indipendenza non c’erano più oppure, se erano rimaste al potere, si erano corrotte. Su questo scenario si sono inseriti problemi nuovi. Tuttavia credo che tanti di essi derivino dal periodo coloniale, che non è stato affrontato fino in fondo, a partire dalla questione dei confini: molte delle guerre e guerriglie moderne si combattono su quelli tracciati dopo le Guerre Mondiali. Io sono una scrittrice, non pretendo di fare analisi geopolitiche, ma mi piacerebbe suggerire ai cittadini, alla politica, ai media, di guardare la realtà attraverso la lente della complessità, piuttosto che accontentarsi di una visione parziale, quasi da buco della serratura. È vero che la letteratura racconta “solo” storie, ma i percorsi esistenziali dei singoli personaggi sono attraversati dalla grande Storia, con le sue contraddizioni».

A proposito di contraddizioni, tu metti in evidenza anche quelle all’interno della galassia dei migranti.

«Oggi c’è una semplificazione di tutti i discorsi: si parla di “migranti” come se fossero una categoria omogenea. Si parla di “migranti” contrapposti a “italiani” come se si trattasse di due squadre di calcio. Ma alla fine, chi sono gli italiani? Sono milanesi, veneti, napoletani? La realtà italiana è complessa, fatta di dinamiche regionali, di genere, di classe. Lo stesso vale per i migranti: ci sono quelli che sono approdati qui negli anni 70 e quelli che arrivano oggi. Quelli che provengono dagli Stati Uniti (perché anche loro sono migranti!) e quelli che arrivano dalla Somalia. Quelli che giungono qui con i barconi e quelli che prendono l’aereo. Facendo interagire i personaggi di Adua e Titanic ho voluto mettere in evidenza proprio queste contraddizioni: loro due sono originari dello stesso Paese, è vero. Ma hanno linguaggi, percorsi e approcci alla vita diversi. Il loro incontro mi è servito per mostrare un quadro complesso e problematizzare la Storia».

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Tu affronti spesso nei tuoi libri il periodo coloniale italiano: perché ti sembra così importante parlarne, quali conti secondo te non sono stati fatti?

«Sarebbe fondamentale studiare la storia dell’imperialismo europeo, eppure a scuola non si fa. Non sappiano niente di quello che Paesi come la Gran Bretagna, la Francia e il Belgio hanno fatto in Africa e altrove. L’Italia, poi, non prende in grande considerazione la propria storia coloniale. Eppure – e mi spiace dirlo – le ex colonie italiane sono tra i Paesi più disgraziati del mondo: la Libia e la Somalia con le guerre civili, l’Eritrea con la dittatura… Certo, la colpa non è tutta degli italiani, però è vero che abbandonando quei Paesi non si sono lasciati dietro classi dirigenti all’altezza. La verità è che abbiamo un problema con la memoria: studiamo poco il fascismo, parliamo di migrazione come se fosse una novità… Ma i nostri contatti con l’alterità sono antichi e profondi: basta andare a Venezia per trovare tracce della tratta degli schiavi; in Sicilia per trovare tracce della presenza araba. Siamo meticci, ma non ci riconosciamo come tali. Durante gli anni del fascismo, quando gli italiani erano in Somalia, Eritrea, Etiopia, Libia, questi Paesi erano presenti nei discorsi e nella vita quotidiana. Nel corso degli ultimi anni, soprattutto durante la stesura del mio libro Roma Negata, scritto con Rino Bianchi, molte persone mi hanno rivelato ricordi di famiglia legati a nonni o padri che avevano vissuto nelle colonie. Un’amica mi ha mostrato la foto dell’amante africana del nonno, una ragazzina di 13/14 anni… e d’altra parte i racconti di Indro Montanelli a questo proposito ce li ricordiamo tutti. C’è anche un motivo personale per cui l’argomento mi sta a cuore: da figlia di migranti riconosco che molti degli stereotipi razzisti creati in Italia in quel periodo, dalla Venere Nera al Buon Ascaro, sono presenti ancora oggi. Quello che io vorrei fare non è puntare il dito contro l’Italia, ma invitare a ricostruire la Storia, capire cos’è successo in passato per superare stereotipi antichi ed evitare errori nel presente, soprattutto con il razzismo».

Dopo la partenza per la Somalia dell’amica del cuore, Adua passa ore a raccontare la propria vita all’elefante di pietra del Bernini che si trova in piazza Santa Maria sopra Minerva, a Roma. Con questa immagine volevi sottolineare la condizione di solitudine dei migranti?

«Sì, ma non solo. Volevo anche fare un discorso sulle città: Roma, Mogadiscio, Addis Abeba, sono luoghi ostili ai miei personaggi ma, pur nella loro brutalità, rivelano anche dei lati positivi. Roma si è mangiata i sogni di Zoppe e quelli di sua figlia, però con la sua bellezza può anche salvare un’anima: e infatti Adua vi trova un angolo dove si sente a casa e dove, attraverso il racconto della propria storia, riesce a ricostruirsi un’identità. L’elefante, poi, è il mio alter ego: anch’io mi metto in ascolto delle storie intorno a me, senza fare domande. E le storie arrivano. Infine, dato che l’elefante che ispirò il Bernini era indiano, mi piaceva creare un legame tra lui e Adua, che arriva dalla Somalia, Paese bagnato proprio dall’Oceano Indiano».

Tra gli argomenti più forti nel libro c’è quello dello sfruttamento del corpo femminile: Adua vorrebbe fare l’attrice, ma gli unici film che riesce a girare in Italia sono soft-porno. Introduci anche il tema dell’infibulazione, delicatissimo perché ci tiene in bilico tra la difesa dell’integrità del corpo della donna e tradizioni culturali ataviche…

«Conosco bene la questione dell’infibulazione perché, anche se non mi ha riguardata personalmente, è una pratica diffusissima in Somalia. Per me che sono una donna di sinistra è importante affrontare questo discorso sottraendolo alla destra. Perché spesso ci si incarta su questa idea del “rispetto le tradizioni” invece bisogna avere il coraggio di dire no, come fanno tante attiviste in Somalia e in Nigeria, che prendono posizioni molto nette senza essere frenate dalla paura di andare a toccare qualcosa atavico. Non c’è niente da difendere nelle mutilazioni genitali femminili: si tratta di pratiche orrende, che il Corano non prescrive e che sono trasversali alle religioni. Con Adua volevo soprattutto portare l’attenzione sul patriarcato, africano come europeo, che fa vivere male le donne e usa i loro corpi. In Italia persistono stereotipi maschilisti ereditati dall’epoca del fascismo, secondo i quali le donne nere sono “facili”, il loro corpo da trattare come oggetto. Per scrivere di Adua ho ripensato a Ines Pellegrini, un’attrice italoeritrea che ha recitato anche con Pasolini. Lei dice che quelli girati con Pasolini sono gli unici suoi film che riesce a riguardare perché è il solo regista che l’abbia trattata come persona e non solo come un corpo. Non è un caso che io abbia dedicato il libro ad attrici come Hattie McDaniel, la Mami di Via col vento, che è diventata stereotipo per eccellenza ma che, a dispetto di questa gabbia che lo star system le aveva messo addosso, è riuscita comunque a girare 300 film… Anche Adua, nonostante le violenze subite, riesce alla fine a uscire dalla sua gabbia e volare via. Grazie al racconto di sé che fa all’elefante e, forse, anche grazie all’energia di Titanic, un ragazzo giovane che lotta per conquistarsi il suo posto in un’Europa che non lo vuole. Alla fine del libro Adua riesce finalmente a vedere se stessa in modo nuovo. E a ritrovare la speranza».