Enrico Natoli ha scritto il 4 dicembre un intervento: Cosa perdiamo della Fotografia.
A partire dai suoi ragionamenti e riflessioni abbiamo aperto spazi di dibattito e confronto sul nostro giornale.
A proposito della fotografia.
di Tano Siracusa
Che la bellezza sia un vecchio arnese ottocentesco e che solo un nobile idiota possa credere che salverà il mondo: sembra questa una delle poche certezze ereditate dal ‘900. La bellezza come ingenua utopia, vecchia trappola spazzata via dalla scopa del disincanto generale.
Il fotogiornalismo ha avuto le sue buone ragioni per guardare con distacco, con indifferenza o aperta diffidenza il crescente utilizzo delle fotografie nel territorio sempre più indefinito e contiguo della produzione artistica.
La ‘bellezza’, la crociana intuizione poetica, ciò che del vecchio mondo residuava nel nuovo, non avevano a che fare con il lavoro dei reporter. Eppure alla fine degli anni venti a Parigi i due fotografi che avrebbero impostato il codice del moderno reportage fotografico, l’ungherese Kertèsz e Cartier Bresson, oggi nelle gallerie d’arte e nei musei di tutto il mondo, frequentavano più gli artisti legati a Dada e al Surrealismo che le redazioni dei giornali.
Il francese prima di sposarsi con la Leica era stato un pittore e tornerà a dipingere e disegnare dopo una serena separazione dalla compagna di una vita. Ma alla ‘bellezza’, all’arte, alla crociana ‘poesia’, Cartier Bresson e i fotografi bressoniani, i fotogiornalisti in generale, resteranno ostentatamente estranei e indifferenti, almeno nelle loro, spesso occasionali, considerazioni teoriche.
Mentre nella pratica professionale i più grandi fotoreporter si ancoravano agli unici codici iconografici disponibili, quelli della grande tradizione grafica e pittorica europea (uno straordinario crocevia di forme pittoriche e fotografiche è l’opera di Degas e mezzo secolo dopo di Hopper).
C’è questa ambiguità di cui non si parla, come fosse sconveniente, come se si rischiasse di fare la figura di chi si è perso qualche puntata importante.
Così quando alcuni anni fa la mostra In cammino, uno dei più straordinari lavori fotografici mai realizzati, è approdata alle Scuderie del Quirinale, Salgado si è affrettato a precisare che le sue foto non erano belle ma vere. Come fosse evidente ma non abbastanza che la bellezza faccia velo alla verità. Come se quelle immagini non fossero vere proprio grazie alla loro qualità formale, alla cifra stilistica, alla dimensione estetica che accompagna l’indubbio coefficiente di informazione. Come se non fossero vere in quanto ‘belle ‘.
Nella lucida ricognizione del panorama attuale della fotografia proposta in un recente articolo da Enrico Natoli (su q code, 5 dicembre: ‘Cosa perdiamo della fotografia’) sono ricordate delle foto-simbolo che si fermano alla soglia degli anni ’90, alcune di fotografi famosi come Robert Capa, Korda o di Kevin Carter, altre di fotografi il cui nome non ricorda mai nessuno.
Poi, osserva Nicolosi, l’irruzione del digitale, il flusso continuo e rapido di immagini prodotto dalle nuove tecnologie, ha reso sempre più raro quel tipo di fotografie. Solo poche si sono aggiunte a rappresentare non un semplice fatto di cronaca ma un clima, un contesto, un passaggio storico. Come la foto del bambino annegato in riva al mare, che da Natoli viene ovviamente ricordata assieme a poche altre, a conferma di una crescente rarefazione di fotografie-simbolo, che rimangono.
Ciò che forse si può aggiungere è che quasi mai queste foto-simbolo attraggono per la loro qualità formale, per la loro ‘bellezza’: sono spesso sguardi rapidi, che hanno mancato la sintesi migliore fra l’evento e la sua rappresentazione nello spazio fotografico. Sguardi non sempre allineati con le forme consacrate dal canone grafico e pittorico, alla cui tradizione, ricca di riconfigurazioni estetiche, di scarti, rimandano non solo le magnifiche inquadrature di Salgado, complesse e impeccabili anche nelle situazioni più estreme, ma tutta la migliore produzione fotogiornalistica, soprattutto a partire dagli anni ’30.
Produzione che continua oggi in digitale con ottimi fotoreporter, magari sconosciuti ai non addetti ai lavori, che puntano sui grandi concorsi e faticano a trovare mercato nel contesto descritto da Nicolosi.
Ci si può domandare insomma se proprio l’assenza di rilievo formale, il basso profilo linguistico della rappresentazione fotografica, non sia un requisito premiato dal mercato.
La tragica immagine di quel bambino potrebbe essere una prova estrema di un estremo impoverimento linguistico delle foto-simbolo: uno sguardo nudo che si posa sull’orrore, che non inquadra fotograficamente, che semplifica un linguaggio del tutto privo di intenzione estetica, di rilievo formale. Come se il sovraccarico di immagini e il loro flusso ininterrotto avesse fatto saltare le cornici, il dislivello fra i fatti e la loro rappresentazione, ogni ambizione di dare un senso all’orrore attraverso il linguaggio e il suo costitutivo artificio.
L’assenza di cornici, l’immediatezza visiva, il mimetismo di uno sguardo ‘pratico’, immerso nel flusso della vita, non intenzionato esteticamente, sembrano incontrare il voayerismo del pubblico e il suo imbarbarimento.
Se sotto le tre croci, sul Calvario, ci fosse un bravo fotoreporter con la sua attrezzatura e i soldati romani con i loro cellulari, quante probabilità avrebbe il fotografo di vedere pubblicate le sue immagini sulle prime pagine dei giornali? Quelle, orribili, del linciaggio di Gheddaffi hanno fatto il giro del mondo.
La mediazione linguistica, che comunque rimane, tende al livello zero di complicazione formale, perde qualunque residuo riferimento ai canoni estetici. Sarebbe questa la novità.
Ciò che rimane opinabile è se la tendenziale perdita di discontinuità fra la selettività dello sguardo fotografico e di quello ‘pratico’ veicoli maggiore o minore informazione. Se la complessità formale di un grande fotografo (non chiamiamola bellezza) faccia velo alla verità o la manifesti.