Il poeta degli emarginati

Intervista a Paul Polansky, Human Rights Award 2004

di Antonio Marafioti

Paul Polansky è il poeta dei poveri, degli ultimi, degli emarginati. Ne raccoglie i pensieri e gli dà forma in parole. A volte, dice, «sono direttamente loro a scrivere, a me basta unire le voci». Classe 1942 di Mason City, Iowa, Polansky ha il fisico imponente e le mani storte da ex pugile e l’aspetto trasandato di chi fra gli homeless ci ha vissuto davvero, in diverse parti del mondo. Trasferitosi in Spagna per evitare il Vietnam, dall’inizio degli anni Sessanta ha girato per l’Europa e i Balcani in difesa dei diritti delle comunità Rom. Era con loro anche tre anni fa quando un incendio bruciò il campo di via Sacile a Milano. Nel 2004 vince lo Human Rights Award per la sua attività in difesa delle minoranze Rom e Ashkali presenti in Kosovo dove, nel 1999, lavorò al servizio dell’Onu in qualità di negoziatore.

C’è un’aspetto della povertà che la poesia le permette di descrivere meglio di altre forme d’arte?
«Molti in verità. La poesia mi permette di usare le loro parole. Divento scrittore al servizio dei loro sentimenti. Mi piace catturare questi sentimenti in una piccola poesia usando le espressioni verbali di chi mi parla. Il saggio di uno studioso, non avrebbe lo stesso senso. La poesia funziona meglio per catturare la realtà. Vivo con loro, gitani e senza tetto, come antropologo, ma scrivo come poeta».

Chi sono i senzatetto per lei?
«Ci sono almeno venti tipologie differenti di senza tetto. C’è gente che è stata sbattuta fuori casa dalle banche, quelli che hanno perso il lavoro, quelli dipendenti da alcol, droga che vogliono scappare dalla società per diverse ragioni. Ci sono i veterani della guerra del Vietnam e altra gente con problemi psicologici che è stata cacciata dagli ospedali negli anni Ottanta dopo i tagli alle spese sanitarie dell’amministrazione Reagan. Sono tante le cause alla base del fenomeno».

Uno dei dati macroeconomici degli ultimi anni è la progressiva scomparsa della classe media.
«Sì è vero. Ho letto diverse statistiche, ultimamente, secondo le quali negli Stati Uniti c’è un terzo della popolazione che lavora. Quelli senza uno stipendio potrebbero, in teoria, vivere per strada».

Quindi il presunto “Paese della libertà” non lo è più per gli altri due terzi degli americani?
«Proprio così. Ho un figlio lì che lavora come banchiere ipotecario e ogni giorno mi racconta storie di quelli quotidianamente perdono casa. Non può neanche immaginare quanti siano. Decine di migliaia, ora dopo ora. Il Paese è in balia dei grandi affari, dei banchieri e delle lobbies. La democrazia non esiste più negli Stati Uniti da tanti anni».

Da quando precisamente?
«Da dopo il secondo conflitto mondiale, quando i produttori di armi hanno fiutato i profitti dell’economia di guerra. Da allora hanno fatto di tutto perché gli Stati Uniti fossero invischiati in un conflitto bellico e le aziende militari lavorassero a pieno regime».

Chi ha steso la trama?
«Le lobbies. Negli Stati Uniti comandano loro e ce n’è una per ogni interesse: quella delle fabbriche pesanti, quella dei medici, quella per la difesa di Israele. Il voto popolare, il potere dei cittadini alle urne è solo una leggenda».

Come hanno influito sul tenore di vita degli americani le scelte compiute dall’amministrazione Obama in questi otto anni al potere?
«Il presidente Obama non ha mantenuto alcuna promessa fatta durante la campagna elettorale del 2007. La sua riforma sanitaria, che per molti è il fiore all’occhiello della sua amministrazione, in realtà si è rivelato essere un fracasso totale. Obama è solo un presidente di guerra: i suoi droni hanno ucciso più innocenti che soldati nemici o terroristi. È un politico che ha illuso milioni di persone».

Quindi il cambiamento reale, lo stato sociale, l’uguaglianza dei cittadini, l’equa distribuzione del reddito, l’assistenza sanitaria, sono solo parole?
«Lo sono in ogni Paese con una classe politica malata. Vogliamo vedere il cambiamento? Votiamo persone che mettono al primo posto l’unità dei cittadini e non il denaro. Sembra un pensiero scontato, ma rifletta su un dato: in ogni nazione chi fa politica ad alti livelli è una persona ricca. Schifosamente ricca. Scardiniamo questo corollario e poi forse potremmo iniziare a sperare».

Torniamo agli homeless. Lei ha vissuto in molti Paesi. Qual è quello che fa di più per loro e quale quello che fa di meno?
«Inizierò dicendo chi fa di meno: sicuramente gli Stati Uniti. Perché c’è un salario minimo ridicolo con il quale nessuno può vivere, anzi, sopravvivere. Prendiamo una coppia che vuole sposarsi. Le sarà impossibile se uno dei due non lavora. Senza due stipendi non si può badare ai bambini, sì, insomma, alla loro crescita. Non ho dubbi, i peggiori sono senz’altro gli Stati Uniti almeno per quanto riguarda l’applicazione del modello svedese di stato sociale che è tanto piaciuto in questi anni».

E il campione di welfare?
«Non esiste un campione. Diciamo che la Spagna offre molti servizi, in primis la Sanità pubblica. Io ho una tessera sanitaria e non pago nulla: né per le medicine né per le visite mediche. È un sistema che ora è più lento, ma almeno è gratuito. È l’unico Paese che ha trovato una buona, anche se non perfetta, soluzione al problema della minoranza gitana. Quasi tutti i loro figli vanno a scuola, molti terminano le superiori, e alcuni riescono perfino a iscriversi all’Università. Su questo versante lo Stato ha dato risposte valide. Su altri ha lasciato a desiderare».

Quali?
«Per esempio quello sull’occupazione giovanile. È vero che la crisi economica è il maggior disastro sociale dal secondo dopoguerra, ma è inconcepibile che in Spagna il sessanta per cento dei giovani che escono dall’Università non riesca a trovare lavoro e che sia costretto a emigrare in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti».

Nella prefazione del suo libro Homeless in America (Left Curve Pubblications, 210 pp. 13 euro) ha scritto: “Quando sono tornato negli Stati Uniti dopo aver vissuto all’estero per 37 anni, non ero così sicuro di capire i poveri in America. Perché c’erano così tanti senzatetto nel Paese più ricco del mondo?”. È riuscito a rispondere a questa domanda?
«Cinquant’anni fa, quando vivevo negli States, c’era una classe media fortissima che, per me, era segno di democrazia. Ora quella classe media si è ridotta drasticamente e gli Stati Uniti, come il resto del mondo, si è diviso fra ricchi e poveri. Vivendo con questi ultimi ho capito che non c’è una risposta unica alla mia domanda perché, come ho già detto, non c’è un solo tipo di povero, o meglio di persona che decide di vivere senza niente. Ho conosciuto quelli che scappano dalla società volontariamente: di solito sono medici, ingegneri, architetti, professionisti in genere che hanno avuto un alto tenore di vita e che d’un tratto hanno deciso di non volerne sapere nulla. Normalmente sono persone abbastanza intelligenti desiderosi di vivere una vita alla David Thoreau. Poi ci sono quelli con storie di fallimento che hanno perso il loro posto di lavoro e sono stati buttati fuori da casa perché non possono più pagare il mutuo e le bollette. Sto parlando della classe medio-bassa che vive per strada contro la sua volontà. Infine c’è gente con problemi seri, i cosiddetti “alienati”, quelli dipendenti da alcol e droga. La risposta alla mia domanda comunque la si legga è una risposta triste».

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