Occhio non vede/3

VISIONI DELLA CITTÀ NASCOSTA, IN UN TENTATIVO DI CONFRONTO TRA TEATRO E GIORNALISMO

di Angelo Miotto e Christian Elia

Il senso che abbiamo dato a Q Code Mag, ormai, lo conoscete. Crediamo che il mondo del giornalismo abbia bisogno di ritrovare il suo senso. Far quadrare i bilanci è diventato più importante dell’informare i cittadini. Conquistare un click, conta di più dell’interesse civile di un fatto. Pubblicare prima degli altri, è più importante di verificare la notizia.

Noi andiamo in direzione opposta, lavorando gratuitamente, sostenuti da una comunità di lettori e di autori sempre più grande. E sperimentando. Mettendoci in discussione. Perché le sfide sono nel nostro spirito fondativo, il confronto nella nostra visione.

Questo ci porta a fare incontri, stimolanti. Quello con Gigi Gherzi e con tutta la banda del TEATRO DEGLI INCONTRI è uno di questi. L’anno scorso, come quest’anno. Vi aspettiamo il 19 DICEMBRE PROSSIMO, dalle 18, alla Fabbrica del Vapore. Tutti assieme. E pubblicheremo le lettere che i cittadini scrivono ai giornalisti, o ai loro stereotipi, rispondendosi a vicenda e interagendo con una rappresentanza della redazione di Q Code sul palco.

Per sperimentare un linguaggio nuovo, per cercare assieme una via d’uscita dal labirinto dove ci siamo perduti.

Terza lettera.

di Antonietta Menna

Caro giornalista dell’immigrazione aiutami a tradurre le tue parole, le parole sono importanti. Hanno significati precisi muovono le lancette del tempo. Chi ti scrive è una profuga dell’Eritrea, avevo sei anni quando sono fuggita dalla mia terra lasciando tutto quello che avevo, anche parte del mio cuore, a volte mi chiedo se questo per te sia irrilevante, se ti sei mai messo dalla mia parte, ti chiedo di aiutarmi a capire perché passano gli anni e la storia periodicamente si ripete.
Ti sei mai domandato se hai una qualche responsabilità in questo? Ti sei mai chiesto in coscienza se proprio tu che devi informare non sei il primo a nutrire pregiudizio?

Ho un ricordo nitido nella memoria, la tavola apparecchiata, la radio sintonizzata sul radiogiornale, e mio padre che diceva: “A tavola non si parla, si combatte con la morte: mangiate in silenzio e ascoltate quello che accade nel mondo, stanno parlando anche di noi, raccontano del nostro viaggio, Ora siete piccoli e dovete Studiare, apprendere e informarvi, informarsi è importante, e un giorno potreste diventare anche voi garanti della verità!”.

Era il 1966, la radio era per noi l’unico mezzo di informazione, in quegli anni la televisione era un bene di lusso per pochi cittadini ricchi, ma la fiducia che papà riponeva in essa mi rassicurava. In effetti stavano dando notizia di focolai di guerriglia in Etiopia e del nuovo numero di sfollati che di li a poco sarebbe arrivato in Italia proprio come era successo a noi, profughi dall’Eritrea.

Ero troppo piccola per capire, per me era stata un’avventura il viaggio su quella nave che ai miei occhi era grande e spaziosa. E non avevo fatto caso alle valige che tutti disprezzavano perché legate con la corda. Da allora ho letto e ascoltato di altre terribili guerre, l’Afghanistan l’Iraq, Repubblica Democratica del Congo, il Medio Oriente commentate in modi differenti ognuna seguendo una logica di pensiero politico, oserei dire senza cuore, senza a mio parere discernimento.

Certo l’informazione è cambiata, si è evoluta: tv, internet, social network la fanno da padroni, per tutti c’è un telethon, una 48 ore per la vita, un concerto per la solidarietà, siamo tutti buonisti, il male non vince, per tutti l’interesse morboso che toglie il respiro, fino all’ultimo respiro e poi…avanti il prossimo Credo ‘che la quantità’ di informazioni e punti di vista differenti vendute tutte come uniche verità e non come analisi profonde del problema forse stanno provocando un abbassamento dell’attenzione fanno smettere di pensare e ti fanno divenire ricettore completamente acritico, le notizie arrivano a ondate…un fatto di cronaca crea interesse…e da li spuntano come funghi tante altre notizie e l’interesse cambia.

Ritengo che la mia formazione di adolescente disarmata prima e di donna confusa po,i sia dovuta anche a questo, lo scrivo con grande rammarico ammetto di non avere la stessa fiducia che mio padre riponeva sui canali di informazione, non ho le sue certezze.

Avrei voluto trasmettere a mio figlio e ai miei nipoti la stessa rassicurazione la stessa fiducia che aveva lui quando ci esortava a coltivare la mente, ad avere una morale, ma sono solo una madre e una nonna confusa. L’immagine di quel bimbo morto sulla spiaggia, mi ha fatto troppo male: ha toccato il mio essere genitore. Ce l’ho davanti agli occhi mentre guido, mentre lavoro, mentre preparo da mangiare, si chiamava AYLAN, poteva essere il mio nipotino, chissà se anche per lui quel viaggio era iniziato come un’avventura…

La prima reazione a quelle immagini e’ stata di rabbia, perché? Perché utilizzare quell’immagine così straziante? Per le proprie vendite e l’aumento dell’audience dei programmi? Ma subito dopo ho avuto una successiva riflessione: egli ultimi due anni, sono morte oltre tremila persone in mare, tra di loro numerosi bambini. Alcuni di loro, ripescati senza arti o con evidenti ferite provocate dagli attacchi degli squali. Il clamore mediatico è stato, più o meno, pari a zero, allora forse quel corpicino sulla spiaggia può servire a smuovere le coscienze e poi penso che anch’io sono storia e posso raccontare, essere memoria, essere confronto e dare fiducia a nuove generazioni che proveranno a cambiare.