Alcune riflessioni sulle elezioni regionali francesi del 6 e 13 dicembre 2015.
di Andrea Geniola
L’état d’esprit delle ultime elezioni regionali francesi è ben rappresentato dalla prima pagina di “Libération” della vigilia e del giorno dopo del secondo turno. Sabato 12 dicembre il prestigioso Libé titolava “Lundi, il sera trop tard” come punto d’arrivo di un’attiva campagna a favore del voto utile “repubblicano” contro il pericolo della vittoria del Front National (FN). La sua edizione del 9 dicembre era in gran parte dedicata ad offrire delle buone ragioni ai lettori del quotidiano, maggioritariamente di una sinistra amplia e variegata ma soprattutto legalitaria e moderata, a favore del voto utile anti-FN in quelle regioni in cui a contendere la vittoria al partito xenofobo fossero candidati della destra neo-gaullista rappresentata dalla nuova creatura politica di Nicolas Sarkozy, Les Républicains (LR), e relativi alleati. Il giorno dopo il voto il quotidiano titolava “Soulagés, mais…” e l’editoriale sottolineava che si trattava di una “Non-défaite” (Laurent Joffrin, Libération, 14/12/2015, p. 2). In sintesi, le cosiddette forze democratiche, e con loro l’idea stessa di repubblica laica e progressiva, sarebbero uscite non sconfitte dalle urne ma nemmeno vittoriose mentre i problemi e le questioni di fondo restano tutte dispiegate sul terreno in prospettiva delle elezioni presidenziali della primavera del 2017. E resta anche sul tappeto la questione dell’assenza di una sinistra organizzata ed elettoralmente credibile alla sinistra del Parti Socialiste (PS) capace di rappresentare un’alternativa per un voto di protesta “anti-sistema” che finisce spesso tra le braccia del FN. Insomma, resta sul tappeto la questione della rigenerazione politica per una repubblica du peuple piuttosto che dell’élite (Laurent Joffrin, “Éditorial: Parle au peuple”, Libération, 8/12/2015, p. 4), da una parte, e quella di una possibile alternativa di sinistra che non riesce storicamente ad essere maggioritaria rispetto alla centralità ed egemonia del PS.
La “non-défaite”
Osservando i risultati dei due turni ci troviamo dinnanzi al paradosso di un sistema elettorale che permette che il primo (in questo momento) partito francese abbia perso le recenti elezioni al secondo turno. In assenza di una vittoria per maggioranza assoluta al primo turno si passa a un secondo turno una settimana dopo in cui solitamente le liste tendono ad accorparsi per affinità. La progressiva ascesa del FN ha fatto sì che nelle ultime tornate elettorali (municipali, provinciali e regionali) questo accorpamento, a volte sulla base di vere e proprie alleanze scritte ed altre attraverso la semplice astensione costruttiva o indicazione di voto, avvenga attorno all’unico obiettivo di non permettere l’accesso a maggiori quote di potere da parte del partito xenofobo. Al primo turno, celebrato il 6 dicembre, il FN aveva vinto in sei regioni su tredici finendo seconda in altre due per un risicatissimo margine di voti. Inoltre al primo turno il FN è stato il primo partito in una Provincia su dieci con una media percentuale attorno al 30%, ovvero un terzo dell’elettorato. Il PS si presentava in testa solo in tre regioni e gli autoproclamati “repubblicani” di Sarkozy in quattro. Questo risultato è stato totalmente ribaltato al secondo turno generando anche una serie di notevoli sorprese anche se relative. Le elezioni regionali in Francia sono un appuntamento di routine che genera poco entusiasmo, nessuna passione e una mobilitazione elettorale ristretta ai soli settori militanti e di area dei partiti oltre che delle clientele dei singoli candidati ed élite. Al contrario è solitamente il grande terreno di battaglia dei regionalismi sub-nazionali e nazionalismi periferici, sia nelle loro versioni indipendentiste che autonomiste. Fenomeno peraltro minoritario in un paese che riduce generalmente le espressioni sub-statali alla dimensione del folklore e della varietà in vini e formaggi di una ricca e saporita gastronomia. Ad esempio l’unica traccia riscontrabile dei Paesi Baschi francesi è nei marchi della produzione enogastronomica, le divise delle locali squadre di rugby e una cultura popolare gelosamente custodita. Un anno fa la Citroën lanciava una serie speciale della DS3 offrendone la personalizzazione con le “bandiere regionali” sul tetto. In importanti questioni come la firma della Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie la Francia è uno dei pochi paesi europei (e l’unico tra i grandi stati-nazione di tradizione liberale) a non averla ancora firmata. Dopo estenuanti mesi di dibattito presso l’Assemblée Nationale (il Parlamento francese eletto a suffragio diretto) la firma è stata bloccata dal Senato della Repubblica (la Camera Alta eletta a suffragio indiretto).
In questo contesto l’organizzazione sub-statale francese non è altro che un ingranaggio periferico dell’amministrazione dello Stato, spesso meno influente delle stesse Provincie, strumento di una parsimoniosa decentralizzazione amministrativa che risponde volutamente, salvo casi eccezionali, a soli criteri funzionalisti e di tecnica burocratica. Dei criteri chiaramente visibili nella recente riorganizzazione delle regioni le quali, in seguito al loro accorpamento e riduzione di numero. Questi accorpamenti hanno portato ad esempio alla sparizione di alcune regioni dotate di personalità storica e culturale propria, come l’Alsazia, l’Alvernia e il Limosino. I legislatori francesi hanno accorpato le due Normandie in una sola, per la gioia di regionalisti normandi d’insignificante peso politico-elettorale, mentre hanno per l’ennesima volta ovviato la richiesta di accorpamento della Provincia della Loire-Atlantique alla Bretagna. La provincia di Nantes è parte della Bretagna storica rivendicata dai nazionalisti bretoni ma è anche una richiesta che ha alla base ragioni di maggior coesione territoriale tra territori dalle forti relazioni socio-economiche oltre che storico-culturali. Fa eccezione la Corsica che oltre ad essere un’isola non è nemmeno una regione bensì una Collectivité Territoriale; considerata una regione metropolitana come tutte le altre è in realtà istituzionalmente più simili alle restanti colonie australi. Con tutta probabilità se non fosse stato a causa della convulsione social-nazionale provocata dagli attentati del 13 novembre scorso di queste elezioni si sarebbero accorti in pochi. In realtà le regioni per le quali si è votato non hanno ancora un nome definitivo né una sede ufficiale bensì pro forma e da confermare.
Da questo punto di vista il voto al FN può certamente essere relativizzato nelle sue dimensioni ma non per qualità e senso politico tendenziale. Laddove il FN aveva più probabilità di vittoria (Nord-Pas-de-Calais/Picardie, Alsace/Champagne-Ardenne/Lorraine e Provence-Alpes-Côte d’Azur) i voti delle sinistre sono confluiti in maniera formale o de facto sui candidati di centro-destra di LR. In tutte le altre regioni è stata una lotta a tre fra FN, alleanza di sinistra ad egemonia PS e la coalizione costruita attorno ad LR. La notte del 13 dicembre sette regioni finivano nelle mani dei sodali di Sarkozy e cinque andavano a beneficio del partito del Presidente Hollande arginandone la caduta verticale di popolarità. Fare comparazioni con le precedenti elezioni regionali è reso difficile dalla stessa riforma regionale ma alcune brevi considerazioni si possono fare, sempre sulla linea del paradigma della non-défaite. La LR aveva a portata di mano una vittoria in queste regionali che il successo del FN ha messo in forse e contribuito a ridimensionare rispetto alle previsioni e proiezioni del partito di Sarkozy. Alla scarsa mobilitazione del primo turno ha fatto seguito il relativo allarme tra gli elettori di sinistra che ha contribuito a rendere il risultato meno tragico del previsto qualche settimana addietro. Inoltre questo risultato globale fa emergere un panorama politico-elettorale con due possibili sviluppi paralleli. Da una parte, LR e FN si starebbero giocando l’egemonia nell’elettorato di destra, con la possibile vittoria di uno dei due nei prossimi cicli elettorali. In questo caso il partito uscito vincitore da questa pugna potrebbe contare su di un patrimonio elettorale considerabile. Dall’altra, è possibile che un sistema fondamentalmente bipolare si stia trasformando in tripolare, con LR al centro e capace di presentarsi come garanzia “repubblicana” contro destre e sinistre. Queste considerazioni si possono fare solo alla luce del sistema elettorale e relativi condizionamenti ma se di un sistema proporzionale secco si trattasse la crisi della sinistra francese sarebbe ancor più evidente e, forse, sarebbe anche più praticabile la costruzione di un’alternativa da sinistra al PS.
“Soulagés, mais…”
Le ultime tornate elettorali francesi presentano da tempo uno scenario simile che si sostanzia nel “tutti contro il FN”. Una prospettiva che si sta costruendo attorno ad una serie di pericolose circostanze. Si è soliti dire che è importante interrogare la realtà con le domande giuste per comprenderla. Forse sarebbe il caso di accontentarsi di non escludere alcune domande dal panorama della problematizzazione delle questioni o di aggiungerne alcune anche magari contraddittorie. Un primo gruppo di questioni riguarda direttamente la presenza stessa ed auge di un partito xenofobo in un paese come la Francia per molti (noi compresi) un indiscutibile punto di riferimenti culturale. Il fatto che il FN non governerà nessuna regione francese è tanto importante quanto sono importanti le regioni nella vicina Repubblica, cioè pochino. Esiste un terzo dell’elettorato che vota oramai per questo partito e, cosa forse più importante, lo identifica con il cambiamento politico e una più aderente difesa dei valori stessi delle Repubblica nonché della nazione francese. Questa circostanza è forse responsabilità del sistema politico vigente piuttosto che merito dello stesso FN. Con tutta probabilità la costruzione di fronti difensivi in ambito elettorale nei confronti del partito dei Le Pen non farà altro che alimentare nell’elettorato la convinzione (certamente sbagliata) che il FN è un partito du peuple, alternativo, autenticamente “nazionale” e anti-élite. Con tutta probabilità sarà un giorno lo stesso sistema elettorale che oggi ne ha sancito la sconfitta ad aiutare il FN a diventare un partito catch-all elettoralmente egemonico, magari chissà per quanto tempo.
L’ascesa del FN negli ultimi anni è stata accompagnata da una tendenziale normalizzazione della sua presenza in strade ed istituzioni. Sembrava quasi che il vecchio partito anti-repubblicano, tradizionalista e quasi loyaliste di papà Jean-Marie si fosse trasformato in una moderna e perbene formazione post-nouvelle droite sotto la giovane guida di una donna moderna e pragmatica. Il tutto con l’inestimabile aiuto degli attentati a “Charlie Hebdo” di gennaio e la mattanza del mese scorso ad opera del fanatismo religioso di turno; e dato che i sicari di turno non erano cristiani bensì mussulmani il gioco era fatto in termini di propaganda e semplificazioni. La stessa tattica di Le Pen figlia ha mirato a normalizzare la presenza del partito nel panorama politico nazionale con un inedito discorso di difesa dei valori della Repubblica laica contro la presunta aggressione ed invasione musulmana. Non più quindi comunisti, laici e sindacati i nemici giurati bensì un nemico nazionalmente esterno per giunta mimetizzato tra immigrati di ritorno postcoloniale e di seconda o terza generazione. Come ha segnalato Nona Mayer su “La vie des idées” quello della normalizzazione del FN è più un discorso che una realtà e poco si accosta a questa poiché il partito non ha cambiato natura, essenza né obiettivi. Ciononostante la normalizzazione sembra essere avvenuta sotto altre coordinate, come quella che ha visto riconoscere il partito xenofobo come partito un’espressione credibile della difesa degli interessi nazionali di una patria minacciata. Infatti uno dei miti circa il FN è proprio quello che lo vorrebbe essere l’avanguardia di una sorta di contro-modello e colonna vertebrale di un’altra Francia quasi anti-francese. Un discorso questo fatto anche dai detrattori del partito e che paradossalmente non ha fatto altro che alimentare in una parte dell’elettorato l’errata sensazione di votare per un partito “alternativo” ed addirittura “anti-sistema”.
Una parte essenziale della parziale ed incompleta visione del FN come partito fuori dal sistema nazionale democratico dei partiti sta proprio nel discorso (ma sarebbe meglio dire narrazione) secondo la quale il patriottismo istituzionale non avrebbe nulla a che vedere con il nazionalismo. La prima sarebbe una positiva identità civica frutto e origine di un’includente cittadinanza di valori universali mentre la seconda il rifugio di oscure pulsioni quasi patologiche, generalmente patrimonio dei nazionalismi sub-statali o delle frange estreme della destra patriottica negli stati-nazione. Ma in realtà uno degli assi sui cui l’elettorato decide di delegare il proprio voto e sul quale i partiti in maniera più o meno velata costruiscono le proprie campagne elettorali è proprio attorno alla vera o presunta capacità di garantire diritti ed integrità di una comunità nazionale più o meno immaginata. Detto in altre parole, il voto per il PS o LR è tanto nazionale e nazionalista quanto quello per il FN. Senza la costruzione nazionale e nazionalizzazione delle masse francese il FN non avrebbe alcun terreno su cui giocare. Senza quella quasi ossessiva presenza dei simboli nazionali e istituzioni dello stato-nazione che scandiscono la quotidianità dei francesi il FN non avrebbe nemmeno un pubblico cui rivolgersi, non avrebbe alcun patrimonio di appartenenza e miti da mobilitare. Insomma, il FN non è il prodotto della Repubblica (ci mancherebbe altro) ma senza di essa e il suo nation-building non sarebbe praticabile alcuna politica di mobilitazione dell’identità nazionale, che è quanto mette in atto essenzialmente il partito in questione. Osservando la questione dalla prospettiva del “Banal nationalism” così come la espone Michael Billig bisognerebbe piuttosto centrare il focus sulla condivisione di un punto di vista nazionalizzato e spesso subcosciente in cui l’essenza di fondo del discorso del FN di fatto si nutre della nazionalizzazione stessa.
Nell’attuale contesto francese ciononostante il nazionalismo banale, quel nazionalismo invisibile e non detto che scava giorno dopo giorno, viene attivato in forma reattiva da una minaccia esterna e doppiamente presunta, sia in qualità di minaccia reale sia in qualità di forza esterna. In questi anni sono finite nelle mani del FN zone che un tempo votavano a sinistra ed un elettorato fatto di lavoratori, disoccupati e giovani che evidentemente non hanno trovato questo cambiamento poi così traumatico, probabilmente proprio perché questo cambiamento avveniva all’interno di una stessa narrazione con al centro la nazione o se preferite la Francia, sempre al centro del discorso politico a destra come a sinistra. Non è che in questi anni e durante l’ultimo anno in particolar modo i partiti francesi in un modo o nell’altro abbiano inseguito il FN sul terreno della difesa della nazione bensì che la nazione è sempre stata al centro delle loro preoccupazioni. Quello che c’è di nuovo è che l’arrivo di una minaccia esterna (vera o presunta) sta generando una corsa al patriottismo (vedi nazionalismo) esplicito in cui tutti fanno a gara a chi è più patriota e chi ha l’egemonia circa cos’è e cosa non è patriottico, su chi lo è e chi no, su quando lo si è e quando no. Sono più che significativi da questo punto di vista gli appelli alla difesa della patria minacciata e l’uso della bandiera per rappresentarli. L’appello proveniente dal governo socialista di tappezzare case, locali e luoghi di lavoro con il tricolore durante la giornata di omaggio alle vittime del 13 novembre celebratasi il 27, l’averla chiamata “Hommage National” sotto l’hastag #FiersdelaFrance mostra un’ossessione nazionalitaria smisurata. Certamente si tratta in parte di un gesto riflesso ed automatico. In società nazionali il ricorso alla difesa dell’identità è la prima risorsa socialmente condivisa e trasversale attorno alla quale costruire dei legami di solidarietà ma tutto questo ha un nome, si chiama nazionalismo. In secondo luogo si tratta certamente anche di una studiata strategia d’inseguimento del FN sul suo proprio terreno dell’orgoglio nazionale che potrebbe non sortire i risultati desiderati e consegnare conseguenze irreversibili. In queste settimane parlamento e forze politiche si sono (tutte) interrogate circa l’opportunità d’introdurre la déchéance de nationalité per sospetti e condannati per attività terroristiche, cioè la decadenza della nazionalità per coloro che lo sono per diritto di nascita ma hanno abbracciato un credo politico che si considera minaccioso. Inoltre il Presidente socialista Hollande ha in queste settimane inanellato una serie di performaces di tono palesemente patriottico (Alain Duhamel, “Les socialistes et le patriotisme”, Libération, 3/12/2015, p. 27). Va da sé che non tutti coloro che hanno mostrato in queste settimane il loro patriottismo/nazionalismo sono assimilabili a ideali xeonofobi o segregazionisti. Esporre simboli nazionali ha certamente un trasfondo nazionalista ma è anche un’affermazione di solidarietà e comunanza. Ciononostante, chi sta traendo profitto dalla situazione è il FN che oramai detta l’agenda politica francese. Inseguirli su questa linea è allo stesso tempo inevitabile e fatale, soprattutto per le sinistre.
Ai bordi dell’Héxagone, tra ethnos e demos
Pur trattandosi di elezioni regionali, e per i motivi già esposti, poco si è parlato di regioni né tantomeno di quelle periferie nazionali rivendicate dai nazionalismi sub-statali che pure sono attivi in Francia. Eppure è proprio in queste periferie dell’Héxagone dove agiscono dei movimenti politici che condividono l’entusiasmo europeista come superamento della minaccia del FN. La questione si complica però quando questo europeismo si sostanzia nel rispetto attivo e concreto delle lingue minoritarie e relativi diritti individuali dei rispettivi parlanti. Da questo punto di vista le posizioni di FN, PS o LR possono essere più o meno sfumate, colorite od esplicite ma condividono l’ossessione di fondo nei confronti della supremazia del francese e difesa della sua “universalità”. Eppure è un dato di fatto che i peggiori risultati il FN li ha ottenuti proprio in Bretagna (18%) e Corsica (9%). La prima vota tradizionalmente a sinistra e ha dato la vittoria al candidato socialista con il 51% dei voti e solo il 30% alla lista di centro-destra. Nella seconda è avvenuto un vero e proprio terremoto politico che ha inspiegabilmente sorpreso quasi tutti gli analisti politici; questi davano per favorita la lista di sinistra arrivata in testa al primo turno. Eppure i numeri erano lì, sotto gli occhi di tutti. Il nuovo governo regionale corso sarà per la prima volta a guida nazionalista corsa o, detto ribaltando i termini della questione, per la prima volta non sarà a guida regionalista folklorica né nazionalista francese. Infatti dopo il primo turno i nazionalisti indipendentisti di Corsica Libera (movimento progressista vicino al Fronte di Liberazione Nazionale Corso) e i nazionalisti autonomisti di Femu a Corsica (lista promossa dal Partito di a Nazione Corsa e guidata del primo sindaco nazionalista di Bastia) hanno presentato una lista congiunta sotto il nome di Pè a Corsica che ha superato sia sinistra che destra francesi con il 35% dei voti. Il caso della Corsica ci consegna un panorama sorprendente in cui sembrerebbe che un territorio storicamente molto conflittuale, in cui da poco tempo tacciono (quasi) le armi, fortemente stigmatizzato e vittima di pesanti stereotipi e pregiudizi al limite dell’offesa si sia convertito in autentico bastione anti-FN e abbia dato la vittoria a forze politiche fortemente europeiste. Con questo non vogliamo affermare che l’antidoto al FN viene o verrà dai nazionalismi periferici né tantomeno dai territori da questi rivendicati. In questo senso i risultati sono pur sempre contraddittori e non permettono alcun tipo di generalizzazione. Lo scorporo dei dati dei Paesi Baschi francesi, che non godono di alcun tipo di riconoscimento istituzionale, ci svelano la vittoria del PS con il 42%, con LR al 37% e il FN solo al 14%; Euskal Herria Bai, la lista abertzale terza forza alle ultime provinciali e municipali ha deciso di non partecipare al voto. Assente dalle elezioni regionali anche il catalanismo nord-catalano in un territorio in cui invece il FN si è affermato come primo partito con un altissimo 44%.
Quello che possiamo estrarre da queste elezioni è un doppio dato su cui riflettere. In primo luogo il patriottismo francese non è estraneo alle espressioni più esacerbate, anti-europeiste e xenofobe contenute nella difesa della patria. In secondo luogo, non tutti i nazionalismi periferici sono espressione di particolarismo e non è detto che da un’identità etnoculturale determinata derivi immancabilmente una qualche rivendicazione nazionale.
Nei prossimi mesi e anni bisognerà osservare non solo quello che accade a Parigi ma anche quello che si muove in Corsica il cui governo regionale avvierà una battaglia per il riconoscimento della completa ufficialità del corso e metterà sul tavolo la devolution dei poteri legislativi. La Corsica potrebbe essere la prima regione metropolitana francese ad essere non solo un organismo amministrativo o un’espressione geografica con peculiarità storico-culturali bensì un soggetto politico autonomo all’interno della Repubblica. Ai futuri governi francesi la scelta di considerare la Corsica come una risorsa verso la rigenerazione politica o un pericolo per l’integrità della patria o, per meglio dire, di una determinata idea di patria. Ai nazionalisti corsi il compito di saper navigare tra le acque dell’ethnos e le sfide del demos senza perdersi per strada. Tra nazionalismo de facto dei partiti francesi, patriottismo istituzionale ed iper-nazionalismo rivendicativo del FN quella della Corsica potrebbe essere una delle alternative possibili all’orizzonte di una Marine Le Pen Presidente della Repubblica nel 2017.