Siria. Tra caos e speranza

Dopo l’iniziale indifferenza intorno al processo iniziato a Vienna ed il cauto ottimismo per l’incontro delle opposizioni a Riad, la risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU votata il 18 dicembre a New York è una nuova doccia fredda per i siriani

di Fouad Roueiha, tratto da Osservatorio Iraq

La risoluzione votata all’unanimità si propone l’avvio di un dialogo intra-siriano già a gennaio sotto l’egida delle Nazioni Unite, per arrivare ad un cessate il fuoco su tutto il territorio e costituire un governo di transizione con il compito di rinnovare la costituzione ed arrivare ad elezioni entro 18 mesi.

La risoluzione ricalca la dichiarazione con cui si era concluso il secondo incontro a Vienna dell’International Syria Support Group, il gruppo di paesi promotori di questo processo, ed anche stavolta restano in sospeso alcuni nodi centrali, come il destino dell’attuale regime.

“Ci sono ancora profonde distanze rispetto al ruolo che dovrà avere Assad” ha affermato il Segretario di Stato statunitense John Kerry presentando la risoluzione. “Il cessate il fuoco non riguarderà le forze considerate terroristiche come Daesh o Jabhat Al Nusra ed altre organizzazioni simili”, ha proseguito.

Per il ministro degli Esteri russo evidentemente la rivolta non è bastata ai siriani ad esprimere il loro rifiuto per Assad o a delegittimarlo, dato che Lavrov ha invece affermato che “solo i siriani possono decidere del loro futuro”, aprendo di fatto ad una sua permanenza al potere, almeno temporaneamente, mentre i ministri francese ed inglese sono stati chiari nell’affermare che l’attuale presidente deve farsi da parte, essendo il principale responsabile della tragedia attuale.

Altro punto cardine a rimanere poco chiaro è quali siano le organizzazioni da considerarsi “terroriste”, oltre a Daesh ed alla branca siriana di Al Qaeda: l’International Syria Support Group aveva affidato il ruolo di stilare la lista dei terroristi alla Giordania che, consultandasi con le intelligence dei vari paesi, ha presentato un elenco di 167 tra organizzazioni e fazioni armate in odor di terrorismo: “Non c’è accordo su tutti i nomi inclusi nella lista, su molti ci sono opinioni opposte” ha affermato il ministro degli Esteri giordano.

La 2254 è una risoluzione che, per mettere d’accordo tutti, si presta a molteplici interpretazioni e non fa riferimento all’articolo 7 dello statuto delle Nazioni Unite, che avrebbe consentito l’uso della forza per imporne l’applicazione.

La notizia della firma è stata accolta dai media internazionali come un grande passo avanti verso una soluzione politica in Siria. Ma nel paese l’accoglienza è stata ben diversa, come dimostrano ad esempio le voci di gente comune raccolte da alcuni programmi radio indipendenti (Hawa Smart e Hara FM, il 19 dicembre): la parola forse più ricorrente è “tradimento”, mentre la domanda che si pongono le persone riguarda chi e come potrà imporre un cessate il fuoco, come può la comunità internazionale arrogarsi il diritto di decidere quali siano i legittimi rappresentanti dell’opposizione siriana e per di più chiedere che siedano al tavolo con il regime prima che ne sia allontanato Assad.

Secondo molti analisti siriani il rischio di una tale risoluzione è che chiunque si rifiuti di sedere con Assad venga considerato “terrorista” e quindi escluso dal cessate il fuoco, diventando obbiettivo legittimo di qualunque attacco.

In tal modo un tentativo di arrivare al cessate il fuoco finirebbe per dare invece la benedizione internazionale ad un inasprirsi dei bombardamenti, anche considerato che tra le organizzazioni che potrebbero essere incluse nella lista ci sono nomi come Ahrar Al Sham o Jeish Al Islam che sono percepite in tutt’altro modo dalla popolazione siriana. Attaccarle vorrebbe dire colpire tutta la Siria, essendo esse diffuse su tutto il territorio.

Preoccupa anche che nella risoluzione si preveda la conservazione delle istituzioni dello Stato siriano (punto su cui c’è accordo anche tra tutte le fazioni siriane) ma non che venga smantellato l’apparato di sicurezza e militare legato ad Assad, con il rischio che si arrivi ad una soluzione maquillage, come è avvenuto in Yemen con scarsi risultati.

Di certo non è incoraggiante il fatto che subito dopo l’approvazione della risoluzione 2254 gli attacchi russi e quelli del regime su aree ben lontane dal territorio controllato da Daesh si siano intensificati pesantemente, con nuove stragi nella provincia di Idleb e nei sobborghi di Damasco che già da un mese vedono una forte escalation contro i civili, con quotidiani bombardamenti su scuole, ospedali e mercati.

Nella notte del 22 dicembre un disperato appello è arrivato dalla provincia di Damasco, precisamente da Moaddamiye. Il media office del Consiglio ribelle locale ha richiesto “l’immediato intervento della comunità internazionale per fermare l’attacco criminale in corso”, dopo aver denunciato almeno 5 morti e centinaia di intossicati dovuti ad un attacco con barili bomba carichi di gas lanciati dal regime.

Fino a pochi giorni fa a Moaddamiye era teoricamente in vigore una tregua permanente, più volte violata dal regime che non ha rimosso l’assedio al sobborgo damasceno e che ora ha lanciato questa nuova offensiva.

Eppure, solo pochi giorni fa per le vie della Siria si respirava un’altra aria: il vertice di New York e l’approvazione della risoluzione 2254 erano la terza tappa del Processo di pace lanciato a Vienna dall’International Syria Support Group ed una montagna di emozioni – tra timide speranze e cocenti delusioni – ha attraversato le vie della Siria in queste ultime settimane di febbrili evoluzioni diplomatiche intorno alla guerra, la possibilità di una soluzione politica e di un imminente cessate il fuoco.

“Siamo rimasti delusi troppe volte per cedere all’ottimismo” ci ha detto il giornalista e fondatore di Ana Media Rami Jarrah, in collegamento via Skype dal centro di Aleppo all’indomani della conferenza di Riad. “Si sente l’interesse anche nei caffè, è l’argomento del giorno e c’è un clima positivo, anche grazie alla nascita della coalizione militare islamica”.

Quella di Riad è una delle tre conferenze dell’opposizione siriana che si sono tenute tra il 10 ed il 12 dicembre con l’obbiettivo di costituire una delegazione deputata a trattare con il regime a partire da gennaio 2016, come previsto dalla roadmap uscita dai due vertici internazionali tenutisi a Vienna a ottobre ed a novembre scorsi.

La roadmap ricalca grossomodo le diciharazioni finali delle precenti conferenze di pace di Ginevra (1 e 2), ma in questa nuova tornata diplomatica a sedere intorno al tavolo sono tutti gli attori internazionali coinvolti, riuniti nell’International Syria Support Group, eccezion fatta per i siriani da parte del regime e delle opposizioni. Altra novità è che questa volta era prevista una calendarizzazione del processo di pace che poi è stata ripresa nella risoluzione ONU.

Il piano di pace e le conferenze di Vienna sono state accolte in Siria da una sostanziale indifferenza e disillusione, significativamente sui social media girava una foto in cui si indicava ironicamente un cameriere come”l’unico siriano invitato a Vienna”.

Se la gente comune non sembrava dar credito al processo di Vienna, le organizzazioni dell’opposizione si sono mosse, anche su stimolo dei loro sponsor internazionali, per adempiere al compito di produrre una delegazione che facesse da contraltare a quella del regime nei colloqui che dovrebbero iniziare a gennaio, ed è in questo solco che nascono i tre incontri delle opposizioni.

Uno a Damasco, dove si è riunita “l’opposizione interna” al regime, uno vicino alle posizioni russe che si è svolto a Derik ed è stato dominato dalle forze curde e dai loro alleati; e infine quello promosso dall’Arabia Saudita a Riad, che ha visto le delegazioni delle principali coalizioni dell’opposizione all’estero e la partecipazione di una significativa rappresentanza delle fazioni armate presenti sul terreno.

Per un maggior approfondimento sui vertici delle opposizioni vi rimandiamo all’ottimo articolo pubblicato da Carnegie e qui tradotto da Communia Network, in questa sede ci limiteremo a dire che la conferenza curda ha prodotto un organo politico deputato a trattare con il regime, come pure quella di Riad che ha pubblicato una dichiarazione finale in cu si chiede alle Nazioni Unite di far pressione sul regime perchè confermi la sua buona volontà con alcuni passi fondamentali, come la fine delle condanne a morte e della detenzione per gli oppositori politici, la rottura degli assedi e l’apertura di corridoi umanitari, la fine dei bombardamenti indiscriminati sulle aree civili, ed in cui si specifica che Assad dovrà lasciare il potere all’inizio della fase di transizione e non come conclusione di questa fase.

Tuttavia gli sforzi di unificazione e per organizzare una delegazione in grado di trattare con il regime sono stati del tutto vanificati dalla riunione del 18 dicembre a New York e dalla risoluzione 2254: in quella sede infatti si è parlato anche delle conferenze degli scorsi anni tenutesi al Cairo ed in Russia ed i discorsi dei diplomatici hanno dato l’impressione che sarà lo stesso International Syria Support Group a scegliere chi sarà legittimato a trattare con il regime, anche sulla base della lista delle organizzazioni terroristiche stilata dalla Giordania e che tiene conto dei criteri dei paesi promotori del processo (spesso contraddittori tra loro, ad esempio la Turchia vorrebbe definire i curdi del PYD come terroristi, mentre USA e Russia li sostengono ed armano) e non del radicamento popolare delle varie fazioni o di come vengano percepite dai siriani stessi.

Nella dichiarazione finale della conferenza delle opposizioni di Riad si faceva riferimento ad uno stato democratico e pluralista in cui non ci sarebbero state distinzioni settarie, una dichiarazione che poteva obbligare le fazioni siriane ad una scelta di campo tra chi vuole una democrazia e chi invece aspira ad un emirato o un califfato.

“Questo è il momento giusto per marcare le differenze, ormai la distanza tra i civili, le fazioni laiche e quelle islamiche stanno crescendo ed un chiarimento non può che far bene” ci diceva Rami Jarrah da Aleppo, ma la spinta verso il chiarimento venuta dai siriani stessi riuniti a Riad è stata del tutto vanificata dalla presa in custodia del processo politico siriano avvenuta a New York.

Tra i commentatori siriani c’è chi prevede che questa dinamica porterà i paesi coinvolti nella crisi siriana a spingere i loro referenti nelle opposizioni a combattere al fianco del regime in una battaglia fratricida contro le fazioni che non accetterano di sottostare a trattare con il regime prima dell’ allontanamento di Assad.

Saranno le prossime settimane a dirci se le preoccupazioni dei siriani sono giustificate, nel frattempo la popolazione stremata spera che almeno si arrivi ad uno stop dei bombardamenti sulle aree civili. Di certo le aspettative sono basse.