La colonna destra dei siti mainstream italiani è il trionfo dei click e la morte del contenuto in rete. Dai castori che ballano alle anatomie dei corpi esibiti in finti servizi rubati.
Q Code Mag affronta la sonnolenza postprandiale che caratterizza alcune date clou di queste feste, o il senso dilatato delle giornate natalizie e di inizio anno, con una carrellata di consigli fra lettura, video, cinema, facezie o spunti per svuotare la scatola cranica. O riempirla di contenuti di quel bellissimo concetto dei nostri avi, che veneravano l’otium come occasione di crescita personale.
di Valeria Nicoletti
Un costante senso di precarietà emozionale ed esistenziale, necessario alla scrittura. Una condizione di esilio interiore, alla ricerca continua dell’altrove, di patrie immaginarie, una sensazione che, come diceva Eugène Ionesco, drammaturgo rumeno naturalizzato francese, è vicina all’idea di paradiso.
Tre voci della letteratura contemporanea, tre scrittori migranti, in esilio volontario, che hanno scelto di reinventarsi in terra straniera, tra l’eccitazione dei nuovi inizi e lo smarrimento dell’alterità.
Guadalupe Nettel, Il corpo in cui sono nata (Einaudi)
“Gli stranieri sono persone ai margini. Non hanno molti legami, non hanno appigli. Sono come piante acquatiche”. Secondo l’autorevole opinione di Granta, storica rivista letteraria, Guadalupe Nettel, nata a Città del Messico nel 1973, atterrata in Francia per completare gli studi, è tra i migliori scrittori non ancora tradotti della sua generazione.
“Una delle esperienze più intense della letteratura è quando nel mezzo di un momento molto difficile della vita ti ritrovi tra le mani un libro che parla esattamente di quello che ti sta succedendo”, racconta in un’intervista, “il fatto di sentirsi compreso da lettore dà un enorme sollievo; se si tiene sempre presente quest’intimità, quest’onestà, la scrittura diventa una liberazione”.
Dopo “Petali”, in Italia, Einaudi ha pubblicato la sua autobiografia, “Il corpo in cui sono nata”, dove Nettel racconta di un’infanzia messicana segnata da un neo bianco sulla cornea, un occhio sinistro bendato, tra gli ambienti borghesi messicani e il libertinaggio hippy dei suoi genitori, fino alle banlieue del sud della Francia, al di là dell’Atlantico, dove comincia la sua seconda esistenza, gli studi a Parigi, il dottorato in linguistica. Un racconto della marginalità dove ripercorrere la geografia dell’esilio è l’unica strada per riconciliarsi con la propria geografia originaria, un corpo incompreso, straniero.
Ancora inedito in Italia, Nettel ha di recente pubblicato anche “El matrimonio de los peces rojos”, una raccolta di racconti, dove esamina le corrispondenze tra abitudini umane e istinti animali nel tepore, a tratti asfittico, della vita domestica. Per i lettori anglofoni, è appena uscito “Natural Histories”, il suo primo libro scritto direttamente in inglese. Sulla rivista online Granta, invece, si trovano i suoi contributi, tra cui la short story Bezoar.
Jhumpa Lahiri, In altre parole (Guanda)
Jhumpa Lahiri è una scrittrice di origini indiane, cresciuta in America, innamorata dell’italiano. È un salto nel vuoto, la decisione di trasferirsi a Roma per immergersi e corteggiare da vicino la lingua italiana, una storia d’amore a senso unico raccontata su Internazionale, settimana dopo settimana. La casa editrice Guanda ha deciso poi di raccogliere le rubriche settimanali e farne uno splendido libro, “In altre parole”, il primo vero libro che Lahiri, premio Pulitzer e autrice di romanzi tradotti in quasi tutte le lingue, scrive in italiano, l’avventura di chi parte semplicemente “per cambiare strada”, per ritrovarsi in una situazione di disagio, certo, di scomodità, di voluta precarietà, ma anche di eccitazione, stupore, meraviglia.
“Rinuncio alla perizia per sfidarmi. Baratto la certezza con l’incertezza”, scrive Lahiri. Il suo è un esilio appositamente studiato per calarsi in uno stato perpetuo di crescita e di possibilità, per diventare altro da sé, come succede ogni volta che si cambia città o si inizia a parlare una lingua altra, sfuggente, mai compresa fino in fondo. “Mi piace lo sforzo. Preferisco le limitazioni. So che mi serve, in qualche modo, la mia ignoranza. Nonostante le limitazioni, mi rendo conto di quanto l’orizzonte sia sconfinato”.
L’ebbrezza nel possedere una nuova lingua, la scoperta di una nuova identità attraverso parole utilizzate per la prima volta: “Quando scopro un modo diverso per esprimermi provo una specie di estasi. Le parole sconosciute rappresentano un abisso vertiginoso, fecondo. Un abisso che contiene tutto ciò che mi sfugge, tutto il possibile”.
Julio Ramon Ribeyro, Scritti apolidi (La Nuova Frontiera)
“Ho vissuto mischiato ai pezzi sparsi, senza sapere dove collocarli. Così, per me vivere sarà stato come cimentarsi in un gioco di cui mi sono sfuggite le regole e dunque non aver trovato la soluzione dell’enigma”. Chi scrive è Julio Ramón Ribeyro, scrittore peruviano “timido e geniale”, nato a Lima nel 1929 e qui morto nel 1994, autore di Scritti apolidi, libro edito dalla casa editrice La Nuova Frontiera.
Ribeyro passò più di vent’anni a Parigi dove lavorò come scrittore, traduttore, giornalista e consigliere presso l’Unesco. Si ritirò a Lima solo durante gli ultimi anni della sua vita, per concedersi un ultimo tratto di strada in solitudine, in riva al mare. Non apolide quindi, ma di certo errante: “Per dieci anni ho vissuto emancipato dal senso della proprietà privata, della professione, della famiglia, del domicilio e ho viaggiato per il mondo con una valigia piena di libri, una macchina da scrivere e un giradischi portatile. Ma ero vulnerabile e ho ceduto a sortilegi antichi come la donna, la casa, il lavoro, i beni. Così ho messo radici, ho scelto un luogo, l’ho occupato e ho cominciato a popolarlo di oggetti e presenze. Prima qualcuno da amare, in seguito qualcosa che questa persona amasse, poi l’attrezzatura del caso: un letto, una sedia, un quadro, un bambino. Ma era solo l’inizio, perché ognuno di noi è stato raccoglitore, si è trasformato in collezionista e ha finito per diventare soltanto un anello nell’interminabile catena dei consumatori”.
Da sempre a suo agio in una dimensione individuale più che collettiva, Ribeyro resta defilato, “uomo smarrito per la solitudine”, che si rimprovera la tendenza alla dispersione, al confondersi per mille strade, fedele alla forma del frammento e del racconto.
“Quando qualcuno scopre che ho vissuto a Parigi per quasi vent’anni, mi dice sempre che quella città deve piacermi molto. E io non so mai cosa rispondere. In realtà non so se Parigi mi piace, come non so se mi piace Lima. La sola cosa che so è che tanto Parigi quanto Lima per me vanno al di là del gusto. Non posso giudicarle per i monumenti, il clima, le persone, l’atmosfera, cosa che posso fare per le città in cui sono stato solo di passaggio, […]. Sia Parigi che Lima per me non sono oggetto di contemplazione, ma conquiste della mia esperienza. Sono dentro di me, come i polmoni e il pancreas, per i quali non so formulare nessuna valutazione estetica. Posso dire solo che mi appartengono”. Come dirlo meglio di lui?