dello statunitense Philip Grossman entra nelle “zone rosse” devastate da esplosioni nucleari
di Giulia Bondi
La ruota panoramica all’ingresso della città. La vegetazione che vince e penetra negli edifici fino ad avvolgerli. Il rumore che fa, o sembra fare, l’assenza di qualsiasi forma di vita. I tasselli colorati e numerati che ricordano le cartelle della tombola, e invece sono parte delle stanze dei bottoni del secondo reattore nucleare della centrale di Chernobyl. Alcune immagini sono ancora “raw”, grezze, ma ugualmente trasmettono un cocktail di emozioni contrastanti. Si chiama Exploring the zone il progetto che il fotografo statunitense Philip Grossman sta curando da quattro anni insieme alla moglie Elizabeth per raccontare la “nuclear exclusion zone” di Chernobyl (e, a partire dal dicembre 2015, anche quella di Fukushima).
Attraverso fotografie e riprese realizzate da droni, Grossman documenta un territorio altrimenti completamente inaccessibile. La costanza nel richiedere e attendere autorizzazioni e sei diverse spedizioni durate in tutto un centinaio di giorni hanno permesso al fotografo di raccogliere immagini surreali e drammatiche che raccontano, a quasi 40 anni di distanza, quella che, insieme appunto all’incidente di Fukushima del marzo 2011, è ritenuta la più grave catastrofe nucleare della storia.
Grossman, che fino al 2011 lavorava in una grande multinazionale come ingegnere, racconta nel blog Exploring the zone la genesi del progetto. Discendente di una famiglia arrivata negli Stati Uniti dall’Ucraina a inizio Novecento, Grossman cresce in Pennsylvania a 11 miglia di distanza dalla centrale nucleare di Three Mile Island. All’epoca dell’incidente verificatosi nella centrale, nel 1979, ha otto anni. Quando finalmente decide di licenziarsi per dedicarsi alla fotografia, è l’incrocio di queste due storie familiari a portarlo a Chernobyl.
Nel suo blog racconta il dietro le quinte del progetto, mentre una spiegazione tecnica del materiale utilizzato si può trovare qui.