di Costanza Pasquali Lasagni, da Gerusalemme
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Ogni volta, al ristorante, si ripete lo stesso copione: da dove vengono i vini? E le birre? Ognuno di noi, a modo suo e compatibilmente con le possibilità, aderisce o perlomeno cerca di attenersi ai principi del BDS, il movimento di resistenza non violenta all’occupazione israeliana tramite il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni verso beni e servizi israeliani prodotti nei territori occupati illegalmente secondo il diritto internazionale di West Bank e Alture del Golan.
Di vini palestinesi ce ne sono pochi, e di certo non sono serviti nei ristoranti di Gerusalemme Ovest.
C’è chi lo dichiara esplicitamente al cameriere, informandosi se i luoghi menzionati sull’etichetta sono in Golan, Giudea o Samaria – i nomi israeliani per indicare la West Bank palestinese; chi ha l’app “Buycott”, che scannerizza il codice a barre e identifica se il prodotto è sulla lista BDS; chi, per non sbagliare, ordina sempre un vino francese o una birra internazionale.
Omar Barghouti, da non confondere con Mustafa Barghouti, attivista e politico, e Marwan Barghouti, membro del partito Fatah detenuto nelle prigioni israeliane da decenni, è un uomo deciso e pratico. Intellettuale palestinese e fondatore del movimento BDS, dal 2005, data di nascita del movimento, porta avanti la campagna internazionale mirata ad azioni di pressione economica e politica sulle attività israeliane, e alla quale persone fisiche, giuridiche, associazioni, stati, sono invitati a partecipare.
Per contro, da sempre opposto a quello che considera una forma di “antisemitismo”, il governo israeliano ha recentemente dichiarato che procederà ad azioni penali nei confronti degli utenti che useranno i social media per esortare al BDS.
A Gerusalemme attuare il boicottaggio è più complesso. Per motivi pratici e giuridici innanzitutto: i prodotti palestinesi non sempre, anzi quasi mai, arrivano nei mercati, la loro circolazione e vendita è disciplinata dall’Accordo di Parigi, il protocollo economico degli Accordi di Oslo, il quale prevede che i beni palestinesi originari della West Bank e di Gaza non possano circolare liberamente in Israele.
Esiste un’unione monetaria, poiché entrambi i paesi utilizzano lo shekel, la divisa israeliana, come valuta, ma non un’area di libero scambio, tanto meno un’unione fiscale. Le due economie sono interconnesse, ma mentre quella palestinese è de jure et de facto dipendente da quella israeliana, il contrario non avviene. Se in alcuni fruttivendoli palestinesi si trova il labneh di Hebron, il più buono della Palestina, nella stragrande maggioranza dei supermercati, inclusi quelli ad Est, sono i prodotti israeliani a farla da padrone.
Alcuni hanno la traduzione in arabo, o in inglese, ma non tutti. A quel punto, se non si sa leggere l’ebraico e non si conosce a memoria il nome di tutte le più di 150 colonie israeliane in West Bank, diventa difficile poter scegliere, anche se la lista pubblicata sul sito del BDS è sempre aggiornata e i marchi più famosi sono ormai conosciuti e facilmente individuabili.
Ma il boicottaggio è complesso soprattutto per un altro motivo: Gerusalemme, e la terra poco santa tutta, non è bianca e nera. Le persone interagiscono, i servizi economici trascendono le appartenenze religiose e nazionali, e di là di tutte le ineguaglianze, l’economia israeliana è fondamentale per la sopravvivenza di quella palestinese. Ogni giorno centinaia di migliaia di palestinesi residenti della West Bank si recano in Israele per lavorare.
Ogni giorno, braccianti palestinesi lavorano nelle serre agricole delle colonie israeliane. L’economia dei servizi nata per facilitare la vita dei 200,000 coloni in West Bank – e altrettanti a Gerusalemme Est – se da una parte ruba tempo, spazio e risorse, dall’altra permette di mantenere un minimo di sopravvivenza per chi non ha la possibilità di scegliere altro. Inoltre, andando oltre le categorizzazioni politiche, i rapporti economici sono una forma di relazione meno conflittuale del conflitto vero e proprio, una sorta di pax economica, altrettanto insostenibile se, come la pace diplomatica, non prevede buy-in da parte di tutti.
Non è raro che sempre più palestinesi di Gerusalemme Est vadano a vivere nelle colonie israeliane della città, servite meglio dei quartieri palestinesi abbandonati dalla municipalità. Possiamo chiamarla riconquista, o semplicemente vita. Noi che arriviamo da fuori con la nostra coscienza moralizzatrice pretendendo di far prendere una posizione a tutti, a partire da noi stessi, e ci stupiamo quando il collega di Ramallah compra il latte israeliano, ci dimentichiamo che coloro i quali vivono in questo sistema distorto e sicuramente ingiusto da decenni hanno almeno il diritto di avere una propria posizione, se c’è, rispetto alla divisione tra pani israeliani e ai pesci palestinesi.
O., in un supermercato di Gaza, mi consiglia di comprare lo yogurt israeliano perché è più buono, e quando vede la mia faccia stupita e gli spiego che di certo non voglio comprare prodotti israeliani a Gaza, si mette a ridere. Come se non ne fossimo già circondati, e invasi. Io stessa finisco a cercare un dentista e mi ritrovo in uno studio israeliano in un quartiere di Gerusalemme Est appena ad est della linea verde, da un gentilissimo dottore molto interessato a tutto quello che ho da dire, non solo sul mio mal di denti.
Certo, è un’economia distorta, che non redistribuisce, in cui una parte comanda e l’altra esegue. Un’economia colonialista da manuale, in cui una parte controlla valuta, porti di entrata ed uscita, incassi doganali, crea domanda, prezzo e offerta, e l’altra si adegua per non affondare, in mancanza di vantaggi comparati che non siano già stati sfruttati dall’altra parte.
Si potrebbero scrivere tesi di dottorato su quanto sia preferibile (eticamente? Economicamente?) che i negozi palestinesi vendano merci cinesi importate e contraffatte – dai caricabatteria dei telefonini alle patatine da colori e sapori improbabili – piuttosto che creme israeliane del Mar Morto, o se l’economia palestinese debba dar retta ai donors e alla loro agenda economica, dato che sono loro i principali finanziatori, piuttosto che farsi dirigere da Israele. Bello sconforto.
Se da fuori è facile, e indubbiamente necessario, prendere una posizione, in virtù di una migliore forza economica e culturale, dai boicottaggi accademici alla chiusura di contratti economici, dall’interno il punto interrogativo è sempre lo stesso: quale peso dare all’occupazione, convitato di pietra di tutti gli aspetti della vita quotidiana? Considerarla equivale a legittimarla? In un qualsiasi lavoro sul campo la realtà dei permessi ti ricorda da che parte stai.
Conviverci, non prendere una posizione in bianco o nero, poiché troppo complessa è la realtà al mercato di Gerusalemme, danneggia o supporta il diritto all’autodeterminazione dei popoli?
E’ connivenza o spirito di sopravvivenza? Pace economica – asimmetrica e ineguale, o lotta per la libertà e partecipazione?
A., la mia instancabile signora delle pulizie, mi racconta che per venire stavolta ha ‘scavalcato’ il muro perché non aveva ancora avuto il rinnovo del permesso per Gerusalemme. Se me lo avesse detto, le avrei chiesto di non venire, troppo pericoloso. E se si fosse fatta male? E se i criminali che gestiscono lo scavalcamento del muro avessero fatto qualcosa di pericoloso? E se fossero arrivati i soldati della polizia di frontiera israeliana? Ma lei, dipendente dai miei shekel e da quelli dei suoi altri clienti, non si è fatta certo intimidire.
Sarebbe bello che quattro milioni di palestinesi boicottassero l’economia delle colonie. Se potessero scegliere un lavoro, o di muoversi. Di non dover svendere i propri diritti in cambio della sopravvivenza. Sarebbe bello credere ai testimonial famosi che spiegano che il trattamento di lavoratori palestinesi e israeliani nella Sodastream, l’azienda israeliana di acqua con bolle, basata a Maale Adumim, il principale settlment della West Bank, e poi spostata a causa delle proteste degli attivisti BDS, è lo stesso. Ma la realtà è che non tutti possono scegliere. E nella scala dei bisogni, mantenere casa e famiglia e sopravvivere qui, in Palestina, significa tutto. Anche lavorare per i coloni, costruire le loro strade e le loro case.
E dal punto di vista giuridico come ci si pone? L’Unione Europea ha recentemente approvato una direttiva sull’etichettatura d’origine: in sostanza, il consumatore europeo sarà più informato sulla provenienza dei beni, inclusi quelli provenienti dalle colonie israeliane, che quindi saranno etichettati come tali, e potrà attuare il suo di diritto di scelta. La legislazione europea si ferma qui.
Il passo successivo sta a noi, soggetti – e agenti – di diritto, incluso quello internazionale, che possiamo con le nostre azioni decidere come porci rispetto alla legge. È innegabile che l’esistenza e permanenza delle colonie, la cui espansione è praticamente quotidiana, sia l’ostacolo – e l’alibi – ad un processo di normalizzazione e riconoscimento (non chiamiamola pace) delle relazioni tra Israele e Palestina. È innegabile che, secondo quel codice di patti, da noi stessi creato, che regola la coesistenza tra individui a tutti i livelli, e che noi chiamiamo diritto, l’occupazione delle terre e delle risorse palestinesi è illegale giuridicamente, e inaccettabile eticamente.
Nel grande minestrone israelo-palestinese, non possiamo chiedere a chi ha tanto da perdere di fare la differenza. Possiamo però chiedercelo noi, la sera allo specchio, cosa abbiamo da perdere, e cosa da guadagnare. Qual è il nostro prezzo per aderire agli standard universali di giustizia e diritto, e come vorremmo essere supportati se quella terra occupata fosse la nostra.