di Christian Elia
L’esecuzione, per impiccagione, dell’imam sciita saudita Nimr al-Nimr, 56 anni, è questione delicata. Perché per la prima volta ha costretto un po’ tutti a parlare dell’elefante nella stanza, come direbbero i britannici: la lotta senza esclusione di colpi tra l’Iran e l’Arabia Saudita, che non è iniziata ieri e non finirà domani.
Andiamo con ordine. Chi era Nimr? Una statura da leader della comunità sciita in Arabia Saudita (due milioni di persone su diciotto), preponderante nella zona orientale del paese, con Qatif come città di riferimento, se l’era costruita con i suoi sermoni velenosi. Che mai, però, avevano uno sfondo settario e anti sunnita. Perché questa è la trappola nella quale si può cadere facilmente.
Nimr ha sempre tuonato contro la corruzione della casa reale saudita, il clan al-Saud, colpendoli dove fa più male: l’incoerenza tra la presunta ‘santità’ dei custodi di Mecca e Medina (culla stessa dell’Islam) e lo stile di vita, gli affari, l’esclusione da quelle ricchezze di tutti coloro che non sono legati al clan.
Durante le proteste del 2011, sull’onda lunga delle cosiddette primavere arabe, Nimr e altri si appellavano alla riforma della monarchia saudita, nel superamento di quell’abbraccio mortale tra clero sunnita wahabita e casa reale, che è sempre stato più un matrimonio d’interesse che di fede. E chiedeva, lui come altri, uguali opportunità per tutti i giovani nati in Arabia Saudita, al di là della fede.
Lo ha spiegato davvero molto bene Marina Calculli, in un intervento sull’Huffington Post: Nimr non era legato alle organizzazioni classiche dello sciismo, né ad altre fortemente invise ai regnanti. La motivazione del suo arresto, della sua condanna e della sua morte sono da ricercarsi nel fatto che rappresentava una spina nel fianco di una rappresentazione del potere che tiene su da decenni gli al-Saud.
Pronti a tutto per tenere quel potere ben stretto, in ossequio al necessario clero sunnita oltranzista, che vede l’Iran come il grande Satana. Ma il legame, ancora una volta, si ammanta di fanatismo religioso, pur essendo solo una declinazione dell’equilibrio di potenza nella regione chiave del Golfo Persico.
Fino alla Rivoluzione in Iran, nel 1979, era lo shah di Persia il punto di riferimento di Washington e della Nato nella regione, poi è diventata l’Arabia Saudita. Oggi, dopo un lungo scollamento nei rapporti tra gli Usa e Riad, che con l’amministrazione Obama è diventata quasi gelo, ecco che l’Arabia Saudita ha visto materializzarsi un nuovo spostamento di equilibri di potere a favore di Teheran. E lo ha ritenuto inaccettabile.
Infiammare lo scontro con l’Iran e con tutto l’universo sciita è diventata, dal 2001 in poi, l’unica bussola di politica estera e interna dei sauditi, per regolare i conti con l’Iran. Che oltre tutto, almeno nella retorica, è un’altra spina nel fianco della monarchia saudita, con la sua rivolta degli ultimi che prendono il potere per il popolo.
Ovviamente, solo un ingenuo può pensare che l’Iran di oggi sia questo. Esecuzioni, diritti negati, interventi negli affari domestici altrui, con la Siria come paradigma, non fanno di Teheran un interlocutore più affidabile in termini democratici dell’Arabia Saudita.
Ci sono delle differenze, è più che vero, ma ad applicare un ferreo esame dei meccanismi di potere neanche Teheran ne esce laureata.
Di questi due pilastri della regione, ciascuno con le sue zone d’ombra, fa paura la voglia di portare lo scontro sempre più in là. L’esecuzione di Nimr è una voluta, cercata, scientifica provocazione. Almeno come tenere (come fa l’Arabia Saudita) così basso il prezzo del petrolio. Una strategia che sta mettendo in affanno la stessa Arabia Saudita, ma necessaria per danneggiare l’Iran, che dopo il disgelo con Washington tornerà a produrre tanto greggio.
In questa guerra fredda, spacciata per religiosa, ma che è totalmente economico – politica, stanno pagando un prezzo altissimo le popolazioni civili in Yemen e in Siria, viene messo a rischio il Libano, viene infiammato il Bahrein, e fatto a brandelli l’Iraq. Una guerra che è arrivata anche alla periferia dell’Islam, in Nigeria, in Afghanistan o in Pakistan. Fin dove arriveranno Iran e Arabia Saudita? Difficile dirlo.
Di sicuro gli Stati Uniti non possono chiamarsi fuori proprio ora. Obama, da tempo, ha lasciato intendere che l’approccio Usa è semplice: lasciar fare ai locali. Solo che è troppo facile, dopo aver usato in modo strumentale la divisione sunniti – sciiti, averla cavalcata, dare oggi una bacchettata quasi ingenua ai sauditi. E’ tempo di cambiare l’approccio, in modo radicale.
Su Q Code Mag, con il progetto Shia’t Alì, si era parlato della deriva di questa strumentalizzazione, e prima ancora su PeaceReporter ed E-il mensile. Sia Usa che Ue devono vincolare Riad e Teheran a ferrei meccanismi di non belligeranza, di non ingerenza in stati terzi, controllando i flussi di denaro a sostegno di gruppi combattenti e mettendo una pressione costante sui diritti umani. Non è un optional, è un dovere.
Sempre che, e sono sempre di più gli elementi in questo senso, dopo decenni spesi nel tentativo di controllare questa regione, non sia ritenuto più opportuno da Usa e Ue che tutto sommato una grande, indistinta zona del pianeta senza una chiara governance non sia preferibile, giocando ora di qua, ora di là, a seconda delle convenienze del periodo.
Se il gioco è questo è dannatamente pericoloso. Perché solo ancorando l’Arabia Saudita e l’Iran alle loro responsabilità, si potrà ragionare in Medio Oriente, altrimenti l’utilizzo strumentale della faglia confessionale tra sunniti e sciiti non tornerà più indietro, lanciata come una locomotiva senza guidatore verso un futuro bellicoso.